Giovedì 21 Novembre 2024
REDAZIONE CRONACA

Una certa idea di onore e fedeltà. Oltre le brutture del fascismo

Senso dello Stato e orgoglio nazionale, i valori che resistono

La 'Marcia su Roma' dipinta da Giacomo Balla

La 'Marcia su Roma' dipinta da Giacomo Balla

Roma, 18 ottobre 2017 - L’8 settembre 1943 come «la morte della Patria». È il pensiero di intellettuali che individuarono nell’Armistizio un tradimento morale. Per molti, rimasti coerenti con un ideale sconfitto, quel giorno andò in frantumi l’idea di nazione. Ferita mai più rimarginata. Sul desiderio rivelato ieri dal direttore di Qn del padre, Franco Cangini, di indossare la camicia nera nella bara, ospitiamo una serie di contributi. All’articolo di Franco Cardini seguiranno quelli di Luciano Violante, Pierluigi Battista, Walter Veltroni, Augusto Barbera, Marcello Veneziani, Marco Follini, Francesco Perfetti. 

---

di FRANCO CARDINI

Chissà dove mai sono finite le mie copie dei romanzi che Giovannino Guareschi ha dedicato tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta a Don Camillo. Li avevo tutti e li avevo letti ripetutamente. Per me, “ragazzo di San Frediano” nato nel 1940 in una famiglia rossa della rossa Firenze – ma con la nonna cattolica di ferro e lo zio “fascista di sinistra” alla Berto Ricci, che mi avevano lasciato entrambi più di qualcosa – e cresciuto nel clima della Guerra fredda, quelle storie della Bassa Padana parlavano un linguaggio noto e familiare. Mi ricordo, in particolare, la pagina della morte della maestra di Brescello, la vecchietta che aveva cercato disperatamente d’insegnar qualcosa a quella zucca dura di Bottazzi Giuseppe, più tardi il “sindaco Peppone” dai baffi alla Stalin cui Gino Cervi dette un’indimenticabile maschera cinematografica.   In punto di morte, la maestra aveva preteso funerali religiosi e tricolore con tanto di croce sabauda sulla bara. Scandalo e bufera nel piccolo comune rosso. Alla fine, il sindaco Peppone salomonicamente sentenzia: come sindaco, non può certo consentire lo spettacolo reazionario di esequie clericali e monarchiche. Ma, aggiunge, qui non comanda il sindaco: comandano i comunisti. E, come capo dei comunisti, Bottazzi Giuseppe sentenzia che la sua vecchia maestra il funerale col tricolore sabaudo ce l’avrà eccome, e guai a chi s’intromette.   Storie forse vere forse no, comunque plausibili ed esemplari d’una vecchia Italia che non c’è più. Un’Italia certo più semplice e ingenua, forse però anche molto più pulita di quella di adesso. Eppure, ancora qualche anno fa, Luciano Violante poteva dalla sua sponda politica rendere omaggio alla buonafede dei “ragazzi di Salò” e due vecchi socialisti come Roberto Vivarelli e Carlo Mazzantini potevano pubblicare due apprezzati libretti di memorie in entrambi i quali con semplicità, senza iattanza e al di là di qualunque provocazione, nel dichiarare il loro sincero rispetto per i partigiani che avevano combattuto fra ’43 e ’45 “per la Libertà”, rivendicavano la dignità del loro passato di adolescenti “repubblichini” che avevano preso le armi “per l’Onore”.

Forse è vero che, in quella tragica guerra civile che molti ancora si rifiutano di riconoscere come tale, assistemmo alla “morte della Patria”. Ma era pur sempre presentarle almeno le armi. Da questi vecchi ricordi spira un equilibrio morale che ormai, nei rigurgiti di polemiche nate dalla confusione mentale e dal demagogismo elettoralistico, pare scomparso. Oggi, agli isterici che distribuiscono provocatori saluti fascisti rispondono altri isterici che chiedono provvedimenti legislativi liberticidi nel nome della libertà e che invocano la mutilazione di monumenti storici responsabili, in realtà, solo di essere qual che sono: vale a dire appunto monumenti storici. Un neofascismo cialtrone contro un neoantifascismo grottesco, che ci fanno riflettere su quante ragioni avesse Ennio Flaiano quando dichiarava che ci sono due tipi di fascismo, il fascismo e l’antifascismo.    Ebbene: risaliamo dal gorgo di queste brutture, riaffioriamo in più spirabil aere. Rientriamo nel mondo della civiltà e della dignità. Un anziano signore che ha vissuto per lunghi decenni in modo integerrimo, un cittadino e un professionista esemplare, giunge al momento estremo della vita. E si volge indietro, e ripensa alla sua vita: alle sue illusioni di ragazzo, alla sua fedeltà conservata intatta non a quel che un’idea politica e il partito che la rappresentava furono in realtà, ma a quel che essi sostenevano e pretendevano di essere e che egli aveva creduto che fossero.  Fedeltà ai valori di dedizione alla patria, che vuol dire di subordinazione della propria esistenza alla vita della comunità civile di cui si fa parte; fedeltà ai valori di onore e di coerenza, che vuol dire fedeltà al senso dello Stato e all’aspirazione magari ingenua a veder crescere giorno dietro giorno il suo Paese in dignità, in forza, in autorevolezza dinanzi al consesso delle nazioni.    Il fascismo, nella sua realtà, non fu certo tutto ciò. Diciamo pure che il “fascismo reale” fu un sistema politico che si resse in buona parte sulla repressione, sul conformismo e sull’ipocrisia; e che rovinò in un immenso fallimento. Potremmo dire la stessa cosa del “comunismo reale”. Ma ciò nulla toglie al rispetto dovuto ai tanti che – accanto ai troppi ipocriti, profittatori, criminali e voltagabbana – restarono fedeli a quella tensione ideale, a quel che quei movimenti e quelle idee pretendevano di essere e che essi avevano creduto che fossero.  Un anziano signore che per tutta la vita, pur nel dolore del disincanto per ciò che in effetti è stato, ha con dignità, disinteressatamente, sempre pagando di persona, tenuto fede a quei magari traditi e disattesi valori, conferma ora la sua testimonianza e chiede ch’essa sia onorata. Chiede di esser sepolto come, dentro di sé, ha sempre vissuto. In camicia nera.    Le ultime volontà di chi si congeda da questo mondo sono sacre e debbono essere rispettate. Ricordiamolo con Giovanbattista Vico e con Ugo Foscolo: sono “nozze e tribunali ed are” i tre valori che consentono all’essere umano di uscire dalla foresta della bestialità e di costruire la civiltà. E tra le are, gli altari, hanno posto anche le tombe.  Può darsi che la camicia nera sia stata obiettivamente un simbolo di violenza e di tirannia. Ma per molti che la indossarono con onestà, a testa alta e in buona fede, non fu così. Per loro fu una bandiera. Rendiamo onore a questo nostro concittadino che prende congedo da noi com’è sempre vissuto: come dice Fabrizio de André, «con la coscienza pura». Non è il colore della sua camicia, è il modello della sua testimonianza che noi onoriamo.