Venerdì 19 Aprile 2024

"È il mio amore, senza Enzo non vivo" Lea muore il giorno dopo suo marito

Concubini nell’Italia pre-divorzio, si sposarono nel 1978 quando nacque la loro figlia. Ricoverati in ospedale, sono scomparsi a 24 ore di distanza

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di Viviana

Ponchia

Ha impiegato solo ventiquattro ore a raggiungerlo. "Vivere senza di lui non è possibile". Ammetteva da sempre l’ossessione amorosa radicale e la simbiosi profumava di perfezione: "Mia moglie è la sola persona che si occupi della mia sopravvivenza".

Lea Vergine ha aspettato lo stretto necessario perché Enzo Mari si prendesse i suoi applausi. E poi gli è scivolata dietro. Lontano dai monitor del San Raffaele dove erano ricoverati insieme, dal Covid e dal naufragio che qualcuno chiama vecchiaia.

Il savonarola dei designer aveva 88 anni e la faccia di Ezra Pound, la sua regina della critica d’arte sei di meno e l’immutabile charme di Audrey Hepburn.

In questo copione scritto dal caso o dalla volontà abbaglia la sorpresa del finale: è così che dovrebbero dileguarsi i grandi amori. Oggi c’è chi ricorda cosa chiedeva la scomoda signora a un dio in cui non credeva: "Chiunque tu sia, fammi morire nel sonno". Un karma gentile ha fatto di meglio: non un’ora più del necessario senza di lui, il "selvaggio dal cuore puro". Dopo mezzo secolo di passione e baruffe, saldamente aggrappati a una zattera in continuo assestamento, sentivano come una sola anima l’inadeguatezza. "La vecchiaia restringe l’orizzonte – diceva Enzo Mari -. E si sente meglio l’avvicinarsi della tempesta. Ma quando un uomo anziano sparisce non è mai una vera tragedia. Resto qui sul divano e attendo che le cose si compiano". Lea voleva evitare di sembrare patetica: "I vecchi non credono più all’anagrafe e in certi momenti tornano giovani. Ma basta passare davanti a uno specchio o uscire da una doccia perché l’incantesimo si rompa".

Ammetteva l’asprezza delle scene finali: "È una china invisibile. Si scende senza far troppo rumore. Cosa c’è di più deprimente?".

La sua parabola matrimoniale: "Con Enzo ci siamo fortemente impoveriti. Siamo un esempio antropologico di quella classe media, un tempo orgogliosa e florida, oggi messa a durissima prova".

Ma non era mai stato facile. Lea Buoncristiano viene concepita fuori dal matrimonio nel 1938, mamma povera e bella, papà figlio di una Ruffo di Calabria.

Cercherà di rimediare lo psichiatra: "Mi assicura che non sono psicotica come certi artisti – precisava la paziente -. Solo una banale nevrotica un po’ cattivella".

Diceva di essersi sentita spesso la derelitta del quadro di Botticelli con la testa china e le mani sulla faccia. Poi intrappolata nella lunga e noiosa stagione di nove anni di matrimonio compensatorio: "Non mi sarei aspettata, alla fine, di trovare il grande amore".

Li fece incontrare a Napoli Giulio Carlo Argan. Ricorda Mari: "Io designer, lei critico d’arte giovane e bella. Ero già sposato. Aleggiò il concubinaggio". Era il 1966.

Lea voleva trasferirsi nella bellezza sguaiata di Roma ma lo seguì a Milano. E si ammalò di amore: "Sapevo di non poterne fare a meno anche se tutto mi consigliava di allontanarmi". Presero una casa piccolissima in via dei Bossi. "Quando pagavamo l’affitto ci guardavano come due delinquenti".

Non c’era il divorzio, vennero denunciati dai portinai. Quando nel ’78 si annunciò la loro bambina, Meta, tornarono a sposarsi per evitarle inconvenienti. E poi sempre insieme a vivere e litigare, in pace solo davanti ai fornelli, che avevano su Lea l’effetto di un ansiolitico. "Lui fa l’assistente, lava, taglia asciuga. Io so di scrivere bene. Ma quando si complimentano per la mia pasta sono molto più felice".