La rivolta di Puerto De Fuego (Certe volte non se ne può più…)

Puerto De Fuego, 16 marzo 1987  Spett. Redazione, queste sono le chiavi di un’autobotte dell’Azienda Igiene. Ve le invio assieme a queste righe sperando in un Vostro intervento. Abito in centro e sono un Resistente.  Nonostante tutti gli ‘incoraggiamenti’ che ricevo a sloggiare, non intendo muovermi di qui. Divieti di sosta, multe selvagge, cantieri ovunque, […]

Puerto De Fuego, 16 marzo 1987

 Spett. Redazione,

queste sono le chiavi di un’autobotte dell’Azienda Igiene. Ve le invio assieme a queste righe sperando in un Vostro intervento. Abito in centro e sono un Resistente.  Nonostante tutti gli ‘incoraggiamenti’ che ricevo a sloggiare, non intendo muovermi di qui. Divieti di sosta, multe selvagge, cantieri ovunque, un traffico che si rischia la pelle ogni giorno, se esco e provo ad attraversare la strada mi ammazzano, un inquinamento che non riesco più a respirare, ordini di sfratto, ufficiali giudiziari, magistrati, avvocati, psicologi: mi assediano. Credono di averla vinta. Io non cedo. Ormai è chiaro che la Municipalità vuole trasformare il centro in un contenitore per uffici, fast food e grandi magazzini. Gli farebbe comodo la mia casa, ma io non me ne vado. Sia chiaro. A meno che non ci mettiamo d’accordo: voglio una buonuscita. Ma da quest’orecchio non ci sentono. Figurarsi! E poi non accetterei comunque. Io tiro dritto per la mia strada. Ma loro me ne stanno facendo di tutti i colori. L’ultima trovata è stata quella di mettermi sotto la finestra, ALLE ORE 4.00 DEL MATTINO, un’autobotte dell’Igiene, col motore imballato, per lavare il marciapiede. Un caos infernale. Impossibile chiudere occhio. Vogliono farmi impazzire. Non ci riusciranno. È una settimana che andiamo avanti così. Io resisto. Ho chiesto aiuto ai vigili del fuoco per sei notti di fila. Nulla. Nessuno è mai arrivato ad aiutarmi. È evidente che sono tutti d’accordo. E allora, ieri notte, alle 4.30, sono intervenuto io: gli ho fregato le chiavi dell’autobotte. Eccole qui nella busta. Non è eroismo, non è sabotaggio. È questione di sopravvivenza.

Cordialità

P.S.: Scusate se non mi firmo, ma se farete un’inchiesta come si deve su questo schifo, allora sarò lieto di dare un contributo costruttivo e non anonimo. Vi avverto: c’è il rischio di una rivolta. Intanto vi prego di far pervenire Voi queste chiavi all’Azienda Igiene, in qualche modo. L’autobotte è ancora qua sotto.

 

Puerto De Fuego, 17 marzo 1987 

Felipe Castro, caporedattore del ‘Libertad’, si rigirava tra le mani le chiavi di un’autobotte parcheggiata dio-sa-dove. In una tasca della giacca la lettera stropicciata, sottratta all’ira del direttore che la reclamava. Non era stato tenero con lui.

«Felipe, non faccia il bambino — gli aveva detto — Cosa vuole che ce ne freghi di fare un’inchiesta su un pazzoide che non vuole cedere la casa alla Municipalità lasciando il posto a un ipermercato? Questa nuova amministrazione sta lavorando bene, dopo anni di immobilismo. Non attaccheremo mai il sindaco e la sua politica di rinnovamento».

«Ma io pensavo solo…», aveva provato a replicare il caporedattore.

«Lei non deve pensare, ma eseguire. Questa è la linea del giornale e decido io. Vuole che tornino in auge quelli di ‘Comunion y Conservacion’? Ci abbiamo messo 40 anni per farli sloggiare!».

«Però…».

«Però un accidente! Il partito ‘Novedad y legalidad’ porterà questa città fuori dalle secche. Conosco bene il sindaco, era a scuola con me: persona degnissima. Come pure il nuovo direttore dell’Asociacion de Comercio, mio amico. E il neopresidente della Grande Empresa Edificacion, consigliato dalla Sociedad Renovacion. E il comandante dei vigili urbani, che ci sta risanando le casse municipali. E il presidente del Tribunale, che finalmente siamo riusciti a far arrivare qui da noi, come lei sa benissimo, per far finire in galera tutti quelli che da decenni ci impedivano di arrivare…».

«Al potere?», non riuscì a trattenersi il caporedattore Castro.

«Sì, al potere, caro mio. Mica dobbiamo vergognarci. Ed è peggio per chi non ci sta. Ma, poi, perché racconto a lei queste cose? Mi ha proprio stufato, con i suoi atteggiamenti boriosi da presunto ‘uomo giusto’. Dove s’illude di arrivare? Le anticipo il suo traguardo: la terra di niente».

«E, infatti, da nessuna parte sto andando. Tranne che nella direzione della giustizia», azzardò Castro, ma si morse immediatamente il labbro inferiore.

«Basta! La faccia finita! Non c’è più spazio per gente come voi. Mi dia quelle maledette chiavi e quella stramaledetta lettera».

«Se no?», trovò il coraggio di chiedere Castro.

«Se no la sbatto fuori».

«Mi dia un po’ di tempo per pensare», disse il caporedattore e finse di provare improvvisa e illuminata condiscendenza, nel frangente aiutato da una certa innata pavidità.

«Alla buon’ora», esclamò il direttore, compiaciuto d’essere riuscito, ancora una volta, a sedare un dipendente riottoso. E prima che a quello venisse in mente d’aggiungere altro, Castro prese la porta e sparì.

 

Puerto De Fuego, 16 marzo 2010  

L’ex caporedattore Felipe Castro si rigirava tra le mani quelle chiavi di autobotte finita dio-sa-come. Sul tavolo, in salotto, la lettera stropicciata di un anonimo che tanti guai causò a un’amministrazione con troppe velleità e scarsa lungimiranza.

«Mi ripeti come finì?», chiese l’anziano ospite straniero che con lui divideva, questione di risparmio, il piccolo appartamento in affitto. L’uomo stava seduto alle sue spalle, non poteva vedere lo strano sorriso che il ricordo lontano sollecitava sul volto invecchiato di Castro e ciò che quelle mani nervose stringevano di nascosto.

«Lo sai già», rispose solo.

«Non mi hai mai raccontato tutta la storia. E poi mi piace riascoltarla».

«Come sai, ci rimisi le penne».

«Come fecero a cacciarti?».

«Con il vecchio trucco del prepensionamento. Una ridicola buonuscita e fui fuori: non ero mica come quel tizio, il Resistente, che aveva il fegato di rifiutare le offerte».

«Ci vuole coraggio».

«Già».

«Così l’inchiesta non fu mai fatta».

«Già».

«E le chiavi dove sono finite?».

«Eccole», disse Castro girandosi e sorridendo apertamente verso il coinquilino.

«Non le hai mai restituite all’Azienda Igiene?».

«Evidentemente».

«E l’autobotte?».

«Questa è un’altra storia», disse Castro. E con la scusa di andare a preparare un caffè, non aprì più bocca. 

 

Puerto De Fuego, nel tempo 

Raccontano le cronache dell’epoca che l’autobotte restò giorni e giorni bloccata sotto la finestra di quella casa in centro. Impossibile rimuoverla: i carro-attrezzi non riuscivano a manovrare nel dedalo dei vicoli. Finché qualcuno, di notte, le diede fuoco. Fu un rogo colossale, come a Puerto De Fuego non se n’erano mai visti. E altri incendi seguirono. Scoppiò una rivolta. Ancora oggi si dice che a capeggiarla fu un tale di cui non si seppe mai il nome. La giunta, dopo un mese di guerriglia, centoventi feriti contati tra rivoltosi e forze dell’ordine, quarantacinque ricoveri, trentadue interventi chirurgici d’urgenza, sessanta espulsioni e quindici intentati processi per direttissima che mai ebbero esito, capitolò. E fu costretta alle dimissioni. Perse anche le successive elezioni straordinarie. Fu il risultato di quella che, forse impropriamente, gli storici ribattezzarono per sempre, e una volta per tutte, Resistencia.

(Tratto da “Colpi bassi”, di Gianluigi Schiavon, Giraldi Editore) 

 

 

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