Il giorno che Johnny Best perse, in considerevole parte, ciò che aveva di più caro, non pensò, sull’istante, che fosse tutto finito. Ma che la vita, da quel momento, gli sarebbe comunque andata, lentamente ma inesorabilmente, a rotoli, questa sì, fu una sensazione che gli si conficcò nel cervello come un’irremovibile lama. Immagine inopportuna, che quel giorno a Londra, non molto dopo il fatto, scacciò con un faticoso gesto della mano destra, mentre con l’altra chiudeva con precauzione il pianoforte. L’importante era reagire e subito. Sapeva come fare, fingere era il suo mestiere. A cominciare dal nome, che certo non poteva essere quello scelto dai genitori italiani. Quel giorno Johnny Best capì che era ora di ricominciare. E tornare nella sua città: Rimini. Indiscutibilmente con qualcosa in meno, ma con un valore ritrovato, il suo vero nome: Giovanni Migliori.

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 Conobbi Johnny Best — come si faceva chiamare allora, signor commissario — alla fine degli anni ’60, una sera al «Joséphine Baker». In quel locale di Soho, proprio dietro Piccadilly Circus, lavorava sei notti alla settimana, giorno di riposo il lunedì, quando spariva dalla circolazione lasciando regolarmente detto che non ci sarebbe stato per nessuno, fosse anche venuto il diavolo in persona a cercarlo. Aveva strani traffici, ma suonava il piano divinamente. E cantava con sentimento vero. La nota più intonata del suo carattere artistico era la disinvoltura con cui scivolava dallo spartito melodico di Sinatra al pentagramma sincopato di Dave Brubeck, da «Night and day» a «My favourite things» senza cedimenti di stile. Sapeva impazzire per l’elegante Benny Goodman, arrivava alle lacrime quando imitava il dolce Armstrong, si perdeva in rivoli di memorie nascoste se rievocava le nostalgie di Ray Charles. Era un lestofante, di prim’ordine. Io non sapevo ancora quanto. E lui non poteva sapere di me, signor commissario.

Diventammo amici. Fu naturale, in quel quartiere allora in mano a noi italiani, che si spingeva, da un lato, fino ai luccichii di Carnaby Street e, dall’altro, entrava nel buio degli scantinati che nascondevano sexy shop lungo Sutton Row. Eravamo giovani, senza scrupoli. Diventammo complici. Naturale, signor commissario. Fu Johnny Best a proporlo, dopo molte sere passate lui a suonare, io ad ascoltarlo: «Non mi occupo solo di musica, con queste mani», mi disse una sera. «Nemmeno io», risposi. E ci intendemmo a meraviglia.

Colpivamo solo il lunedì, il suo giorno di riposo: banche, uffici postali, negozi, cottage, lontano da Soho ovviamente, verso nord, nel quartiere dei ricchi, Golders Green. Maneggiava le pistole divinamente. Io preferivo il coltello, mi bastava. Certi titoloni, sul ‘Guardian’, signor commissario: ci chiamavano «The Crime Brothers». Ed eravamo, sì, come fratelli: bottino diviso a metà, sempre d’accordo. Il lunedì al lavoro, gli altri giorni al «Joséphine Baker», lui a suonare, io ad ascoltare. E a preparare altri piani. Andava tutto alla grande, finché Johnny Best non fece la cosa peggiore che potesse fare: mi tradì. Fu quando cambiammo quartiere, Hampstead Heath, poco prima di Golders Green, lì la gente era più povera. E agguerrita. Quel maledetto pachistano non ne voleva sapere di lasciarci l’incasso, tirò fuori la pistola, mi colpì alla spalla destra, il coltello mi cadde di mano, perdevo sangue a fiumi. E Johnny, Johnny cosa fece, signor commissario? Scappò. Non sparò contro quel bastardo, gli tremava la mano, la destra. Mi lasciò lì a pisciare sangue come un vitello. Dovetti arrangiarmi col pachistano. E ci riuscii, certo. Ma poi andai a cercare Johnny Best. E feci quello che dovevo fare. Col coltello. La musica era finita. Solo che lui mi denunciò, con una lettera anonima, scritta su un foglio pentagrammato, pensi un po’ signor commissario. Così io finii in galera, ma non confessai mai nulla di nulla. Lui sparì.

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Ritrovai Giovanni Migliori — era quello il nome in locandina — 20 anni dopo al «Chet Baker» di Rimini. L’insegna del locale mi ricordava qualcosa. C’era un pianista straordinario, suonava nella penombra del palco, le mani nascoste dal bordo della tastiera. Anche questo mi ricordava qualcosa. Quel tizio si stava perdendo in rivoli nostalgici sulle note di un vecchio Ray Charles. Non riuscivo a vederlo in faccia, perciò mi sporsi di lato dal mio tavolino. E gli vidi la mano destra: gli mancavano tre dita. Ma non feci in tempo a chiedermi come facesse a suonare così divinamente con quella mano monca e il mio pensiero nel riconoscerlo fu molto meno veloce della sua sinistra. In cui teneva una pistola. Sparò, mi colpì di striscio alla spalla destra, vicino alla vecchia cicatrice. Ma anch’io, in quegli anni, avevo imparato a usare la mano sinistra. Lanciai il coltello, dritto al cuore, lo lasciai lì, in una pozza di sangue. E stavolta fui io a scappare.

Ora sono qui, signor commissario, e confesso: sì, fui io a tagliare tre dita a Giovanni Migliori, alias Johnny Best, tanti anni fa a Londra. Così come sono stato io a ucciderlo, qui a Rimini. Ed è un peccato. Era come un fratello per me. E suonava divinamente.

 

(Tratto da: “Colpi bassi”, di Gianluigi Schiavon, Giraldi Editore)