Il bambino appoggiò il libro di storia sul banco di scuola. L’aprì al capitolo: “Freedonia, il tramonto delle libertà”. L’Educatrice voleva che suoi alunni sapessero tutto del loro Paese, specialmente quanto accaduto duecento anni prima, ai tempi della Svolta. Per non avere rimpianti o, peggio, strane idee. Il bambino cominciò a studiare.

 

Nell’Anno Domini 2013 Freedonia, il Paese dove tutto era concesso, decise di ricominciare ogni cosa daccapo. Non c’erano alternative. Era sempre stata, storicamente, una nazione fondata sulle grandi libertà, compresa quella di essere, e mostrarsi, inconcludente. Non stupì pertanto nessuno il fatto che anche le ultime elezioni non avessero dato risultati certi e governabili. Tutti i partiti principali erano giunti più o meno alla pari, una maggioranza vera non esisteva o, per dirla con la celebre frase di un leader politico del tempo: “Non abbiamo vinto, ma siamo arrivati primi”. Espressione condivisa da molti avversari alle urne, il che legittimava le aspirazioni di chiunque a salire al potere. E restarvi. Ma il fatto era che per andare al governo ognuno aveva bisogno dell’altro e bastava che qualcuno facesse lo schizzinoso per impedire ogni forma di guida del Paese. Poco alla volta a Freedonia, dove ci si poteva prendere anche la libertà di far votare la gente per niente, la faccenda cominciò a farsi inesorabilmente scomoda. I Paesi confinanti reclamavano per questa repubblica un governo stabile e riconoscibile cui – se non altro – poter addebitare colpe, presunte o reali, della comunità internazionale, e nei cui confronti fosse possibile vantare crediti, veri o fittizi, da parte di ogni singolo Stato. I mercati si vendicarono a modo loro, assediando la Borsa di Freedonia e strangolandola (metafora economica). Al resto pensarono quelle che allora avevano enormi poteri mondiali e che, proprio per questo, oggi non esistono più: le agenzie di rating, preposte a stilare indiscusse e indiscutibili pagelle di affidabilità. Declassarono Freedonia a un livello talmente basso che fu necessario inventare una nuova categoria: STS, sottoscala (altra metafora).

Fu a questo punto che qualcuno – la paternità dell’idea resta ignota agli odierni storici – inventò il Sistema Penelope. Ovvero: disfare la tela appena conclusa. Ovvero: ricominciare ogni volta daccapo. Ovvero, secondo le ultime interpretazioni: temporeggiare all’infinito. Il primo risultato del Sistema Penelope fu che vennero indette nuove elezioni. Che portarono allo stesso identico risultato delle precedenti. Seguì pertanto una nuova convocazione alle urne. E poi un’altra. E un’altra. E un’altra ancora. Per una somma parziale di dodici tornate elettorali nei primi 17 mesi. Non fu l’unica conseguenza della libera scelta di rimandare ogni scelta. Per esempio, non nacque più un nuovo Parlamento, quindi mai vennero nominati presidenti di Camera e Senato, figuriamoci commissioni o giunte varie, né furono varate riforme della giustizia, sul conflitto di interessi e, va da sé, nessuna nuova legge elettorale venne, nemmeno lontanamente, ipotizzata. L’allora Presidente dell’allora Repubblica, ormai ultracentenario, batté ogni record di permanenza sulla poltrona più alta: tre settennati, non per bramosia di potere, ma solo in virtù del nobile e disperato intento di formare un governo che mai vide la luce. Nel frattempo il Sistema Penelope attecchì anche nella società civile. La gente non lavorava più perché tanto ‘non v’è più certezza di un futuro’ . I ragazzi non andavano più a scuola perché a cosa serve studiare il passato se non v’è più certezza eccetera, eccetera e poi l’istruzione non si mangia. Tutto poteva essere rifatto, in qualunque aspetto del vivere quotidiano. Si arrivò all’enorme spreco di energie di ripetere di sana pianta una sorta di istituzione popolare ribattezzata Festival di Sanremo. Si rivotarono uno per uno i cantanti. Vinse un tale, il cui nome non è passato alla storia, con il motivetto: “Cambiare si può”. Una menzogna plateale. Come le altre che contrassegnarono quel periodo di Freedonia. Il resto è cronaca dei nostri giorni.

 

Nell’Anno Domini 2213, in un caldo pomeriggio di maggio, il bambino chiuse il libro e guardò l’orologio. Mezzogiorno meno cinque: mancavano cinque minuti al coprifuoco. Sentì lo sbattere di tacchi della Ronda Militare di Sicurezza che passava sotto la scuola. Controllava il rispetto delle regole e degli orari, la stagione delle libertà non capite era finito da un pezzo. A Freedonia ci erano ormai abituati: da almeno due secoli la Grande Dittatura aveva cambiato le sorti del Paese. Il bambino arrivò a casa trafelato, ma in tempo. Mancava un minuto a mezzogiorno, ebbe la libertà di calcolare.