NIENTE L’anno che verrà, Piazza grande, niente Caruso. Sarà un funerale senza la sua musica l’ultimo saluto a Lucio Dalla. Nella basilica di San Petronio si leveranno solo canti gregoriani e brani del repertorio sacro. A deciderlo la Conferenza episcopale italiana nella persona di monsignor Alceste Catella, presidente della commissione Cei per la liturgia.

Passano le ore, sbiadisce l’inchiostro, eppure, rileggendo le parole del vescovo di Casale Monferrato, non si riesce a scacciare l’amaro dalla bocca. Anche a bocce ferme continua ad infastidire il tono dell’intervento. Scomposto, a gamba tesa, fuori luogo nell’atmosfera quasi irreale che ancora si respira a Bologna. In casa, al lavoro canticchiamo tutti le canzoni di Lucio, da tre giorni piangiamo a dirotto la morte di un padre nobile e gentile, ma non riusciamo a scoprirci orfani. Sembra solo un gran brutto scherzo. Invece, è il prezzo beffardo di una fine inaspettata.

«Spero che nel funerale di Dalla non vengano messi dischi con le sue canzoni. Dopo di che, noi non abbiamo i carabinieri per andare a impedirlo», ha detto l’altro pomeriggio monsignor Catella. Poi, qualche ora più tardi, il vescovo ci ha ripensato. E giù a garantire <profonda stima> per Lucio e a derubricare a semplice <battuta> le sue dichiarazioni. Ma la ferita resta: in certe circostanze i carabinieri starebbero meglio in caserma, tanto per rimanere in vena di ‘scherzi’.

Tonalità a parte, colpisce il semaforo rosso alla musica di Dalla in San Petronio. Comprendiamo i timori di chi vuole scongiurare la spettacolarizzazione del funerale, facciamo nostre anche le ansie dei fedeli che intendono il commiato come un momento di riflessione sul destino dell’anima. Però? Proviamo ad andare oltre. Interroghiamoci sui versi di un cantautore imbevuto di fede. Non quella clericale, certo, ma è pur sempre amore per Cristo. <A modo mio>, avrebbe sintetizzato Lucio.

Siamo davvero sicuri che le parole di Dalla siano d’intralcio a più alti pensieri? Quattro marzo 1943 non è forse un brano dalla spirtualità profonda? Abbiamo un brivido: e, se la sua voce in San Petronio riuscisse a rapire le corde di chi ancora è in ricerca, non perderemmo, come Chiesa, un’occasione di speranza?

Non ci sarà la musica di Dalla e non ci sarà l’arcivescoo Carlo Caffarra. Non sarà lui, a dispetto delle attese, ad officiare il funerale. E nemmeno il numero due dell’arcidiocesi, il vicario generale Giovanni Silvagni. A salire sull’altare di San Petronio – è dai tempi dell’ultimo saluto a don Giuseppe Dossetti che i portoni della basilica sono chiusi al commisto – sarà il pro vicario generale, Gabriele Cavina. Come a dire che la Curia di Bologna vuole e non può non esserci, ma senza compromettersi più di tanto con chi aveva una vita sessuale ‘chiacchierata’ . Dai soliti benpensanti.

Quattro anni fa, non poco lontano dalle Due Torri, l’allora arcivescovo di Modena, Benito Cocchi, celebrò in prima persona i funerali di Luciano Pavarotti. Come noto, il tenore aveva divorziato ed era convolato a seconde nozze, senza mai pentirsi. Il vescovo lo sapeva, eppure, davanti alla morte, non ebbe scrupoli. I maligni dissero che più della morale poté la fama del deceduto, ma chi conosce bene Cocchi sa della sua vicinanza al vissuto della gente. All’uscita della bara le note di Vincerò, cantata dalla voce impetuosa di Big Luciano, riempirono le navate del duomo tra gli applausi dei 50mila intervenuti alle esequie. Pavarotti non avrebbe voluto funerale migliore. Lui, e Dalla?

 Giovanni Panettiere