L’ESPLOSIONE sembrò far vibrare il Palazzo dell’Informazione. Turno notturno. Ero al telefono con Manu, la moglie di Stefano Guatelli, il «mio» fotografo, l’amico e compagno di lavoro di sempre, uno dei tanti che ci hanno lasciato troppo presto. Volevo organizzare con loro una delle nostre solite cene, un saluto prima della pausa di agosto. Ci fu un secondo di silenzio totale, di vuoto mentale. La voce di Manu arrivò incrinata da uno sbigottimento preoccupato. «Cosa è successo?», come un sussurro. «Non lo so, ma rintraccia tuo marito e digli di venire subito».

Quei pochi metri da piazza Cavour a via Palestro durarono qualche secondo, eppure li ricordo a uno a uno come se li avessi percorsi in surplace anziché di corsa. «Paso, Paso». Il vigile del fuoco era chino sul corpo straziato del collega, lo stringeva quasi a trattenere la vita che fuggiva. «Paso, Paso». Un grido, una invocazione, un pianto. Sergio Pasotto, morto come gli altri due vigili del fuoco, Carlo La Catena e Stefano Picerno. Come il vigile urbano Alessandro Ferrari. Come Driss Moussafir, marocchino clandestino in Italia: dormiva su una panchina, il trambusto l’aveva svegliato, incuriosito si era avvicinato al Padiglione di arte contemporanea. Un uomo si aggirava in quello scenario di morte, la camiciola estiva strizzata dal sudore. Era il professor Umberto Veronesi, passava in auto, si era fermato a prestare soccorso. Stefano era lì. Lavorammo fianco a fianco, come sempre, attenti a non calpestare i corpi senza vita. Stefano scattava. Piangeva ma il suo obiettivo non perse un solo angolo di quello scenario di morte.

Quando ci allontanarono tentai di risalire in via Palestro arrampicandomi sul muro dei giardini, mi scortecciai un braccio, rientrai tamponandomi col fazzoletto. La ribattuta di un giornale completamente rivoluzionato venne preparata nello stanzone dei «Fatti Vita», gli interni di allora. Pochi della redazione quella notte rimasero a casa. Quasi tutti si precipitarono al giornale, anche per non scrivere un solo rigo. Vollero esserci. Era «Il Giorno»… La notte passata fra due sedie nell’agenzia di Stefano. Al mattino lo spettacolo assurdo del cratere lunare aperto dall’esplosione. Seguii la storia di Driss, andato a morire per avere lasciato la sua panchina. Ricordo il funerale nella moschea di Segrate. «Driss» in arabo significa «viaggiatore». «Addio Driss, viaggiatore sfortunato», era l’inizio dell’ultimo pezzo.
Diciannove anni dopo. Per ricordare con dolore. Per ricordare con rabbia.
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