FORSE è normale ritrovarsi, all’alba di un sabato milanese, a fronteggiare un uomo che impugna una spranga, liberarsene, rincasare per riprendere il sonno interrotto. Forse è normale ritrovarsi storditi a terra, riaversi, riprendere la via di casa. Forse è normale scoprirsi seguiti da un individuo armato di piccone, chiudergli in faccia il portone di casa, vederlo stampare le mani su quel portone come se volesse forzarlo per aprire. Forse tutto questo è normale nella Milano del terzo millennio. Perché uno degli aspetti che più colpiscono, sorprendono e fanno chiedere «perché» nella mattanza di Niguarda, è il silenzio degli scampati. Per 97 minuti Mada Kabobo è stato libero (e lasciato libero, verrebbe da aggiungere) di sbrigliare la sua furia omicida affidata a una spranga e a un piccone, di aggredire per sette volte, ferire, uccidere. Nessuno lancia l’allarme, nessuno chiama i numeri che dovrebbero essere salvifici 112 e 113. Nessuna delle sue vittime.

ERA DOMENICA, ieri, anche a Niguarda. Festa della Mamma. L’oratorio era gremito. Lisci e rock and roll uscivano da un centro ricreativo per anziani in via Grivola, la stessa dove abitava l’ucciso Alessandro Carolè e dove vive uno dei feriti. In piazza Belloveso due mazzetti di rose e un biglietto ricordavano Alessandro ai clienti del bar che era stato il suo ultimo approdo. La vita è anche questo, ore da consumare in fretta, pagine da voltare. Il quartiere metabolizza la tragedia con dignità composta. Sono rari gli accenti xenofobi, non si raccolgono inviti alla caccia al nero, suonano sporadiche le inevitabili invocazioni alle punizioni estreme. Ma si sente, si respira, si tocca, la compagnia sinistra della paura. Perché il piccone di Kabobo ha infranto, oltre alla vita di Alessandro, qualcosa a cui la gente tiene tanto: la normalità. La passeggiata mattutina, l’uscita per la pipì del cagnolino, il primo caffè della giornata, da sorbire in solitudine quando i tavolini del bar sono ancora da sistemare. Un attentato. Un’offesa. Il timore retrospettivo del «sarebbe potuto toccare a me». La grande paura di non poter fare le cose di ogni giorno. O di doverle pagare con la vita.
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