Quei soldati al pianerottolo

SCAMBIAVAMO un saluto sul pianerottolo. Li incontravamo davanti alla scuola e ai giardinetti. Abbiamo condiviso più di un momento della pigra vita di provincia, in paesi dove pare destino che nulla debba accadere se non il quotidiano trascorrere della immutabilità. Certo conoscevamo la loro nuova fede religiosa, ma i tempi ci hanno abituati alla elasticità […]

SCAMBIAVAMO un saluto sul pianerottolo. Li incontravamo davanti alla scuola e ai giardinetti. Abbiamo condiviso più di un momento della pigra vita di provincia, in paesi dove pare destino che nulla debba accadere se non il quotidiano trascorrere della immutabilità. Certo conoscevamo la loro nuova fede religiosa, ma i tempi ci hanno abituati alla elasticità delle menti, che andava a unirsi alla naturale rispetto, alla congenita tolleranza proprie della gente lombarda. Un giorno ci dicono che li hanno blindati perché erano «soldati», avevano gli zaini pronti alla partenza per la guerra e il sacrificio sotto la bandiera nera dell’Isis.

Provoca un brivido prolungato il pensiero (confiniamolo per ora a livello di incubo, di paura che accettiamo di definire stupida) che questo esercito un giorno possa compattarsi, aggregarsi, agire. E non al di là del Mediterrraneo. C’è però un altro pensiero e ci deve rassicurare. Per anni di cui tutti abbiamo sentito il peso in piombo abbiamo quasi coabitato con il terrorista della porta accanto. La nostra è stata una lunga guerra, paziente e silenziosa, convivendo con il terrore. Le nostre coscienze hanno vinto. Abbiamo vinto. È Storia. E la Storia non deve smettere di insegnare.

gabriele.moroni@ilgiorno.net