Com’era bello con Gianni Brera. E come tutto è stato diverso senza di lui, da quella sera di dicembre di vent’anni fa, quando il Gioann non uscì vivo dall’ultima curva della vita. Diceva che gli sarebbe piaciuto morire su un aereo in caduta. Gli capitò in uno scontro fra auto, a pochi giorni dal Natale, il periodo più incongruo per andarsene. Ci manca. A leggere certi resoconti sportivi che hannola stessa vivacità di un rogito notarile, a subire telecronache sfavillanti come una messa da requiem, non si può che ricordarlo nostalgicamente. Nella prosa di Brera (il Brera de Il Giorno, detto senza campanilismo aziendale, semmai con orgoglio di appartenenza) il calcio diventava epos pedatorio e insieme fatica, sudore, agonismo, combattimento, lotta. La creazione linguistica si consolidava in linguaggio. Oggi, senza avvedercene, parliamo, scriviamo, pensiamo Brera.

Non amava gli epitaffi. Avrebbe  disdegnato di essere rimpianto. Non era da lui, Gran Lombardo, cresciuto «brado o quasi fra boschi, rive e mollenti … padano di riva e di golena, di boschi e di sabbioni». Ruvido di scorza quanto pudico nei sentimenti, ricordava il grande sodale Nereo Rocco senza lacrime, perché sentiva che il diritto di piangere non gli apparteneva più datempo. Ci manchi e ci mancherai, a dispetto del trascorrere impietoso del tempo. Chi ti ha conosciuto, letto, ascoltato,amatodarebbe qualcosa che gli è caro in vita per restituirti un po’ della tua. Per un attimo solo. Il tempo per una battuta, un brindisi, una tirata di sigaro. Per una stretta di mano.