TANTI colori. In una giornata di sole pieno. Al grande patriarca sarebbe piaciuto. Il cardigan di Rosita, sipario policromo di una storia d’amore che si materializza in un marchio straordinario: nel 1953, quando s’incontrano a Piccadilly Circus, a Londra, lui è un esule dalmata, «grande, sottile e un po’ mona» (autoritratto), lei una signorina di buona famiglia, carina, minuta, tailleur da collegiale. Alla Comunione suonano l’Inno alla Gioia di Beethoven. «Non dobbiamo piangere – promette un nipote – perché tu eri un uomo felice. Ce la metteremo tutta» e lancia un «evviva». La musica, la tavolozza dei colori, attorno luci sincere. Tutto pare concorrere a esorcizzare il grigiore della morte del capitano, il capo, il fondatore della maison. Eppure, c’è in tutti la sensazione sottile ma acuta di una fine epocale. Il «conte Ottavio», come lo chiamava Brera, se n’è andato e un’era si chiude. Il grande Tai l’ha percorsa tutta, ha corso ogni giorno dei suoi 92 anni, con quel cuore di atleta che portava dalla Dalmazia dolori e rimpianti, è stato tenero e dissacrante, concreto e sognatore, il successo certamente cercato e voluto, ma senza farsene travolgere, applicando l’arte antica e poco praticata del non prendersi sul serio.

L’ATLETA ha spezzato il filo di lana. Forse la vecchia quercia aveva iniziato a inclinare già tempo fa, quando il cielo, il mare, la sorte non gli avevano restituito Vittorio. La villa di Sumirago si era trasformata nel suo rifugio, le sortite in azienda si erano fatte sempre più rare. Anche se una volta il vecchio monello era comparso in portineria, alla ricerca clandestina di una sigaretta con cui violare le norme salutistiche imposte da medici. Aveva lottato per sapere del suo primogenito, raccontano i pochi che avevano varcato la soglia di quell’eremo. Voleva sapere e aveva infranto la cortina di prudenze cautelose che gli erano state stese attorno. Forse aveva iniziato allora ad avviarsi verso l’epilogo. Da Missoni, certo, fiero e ancora scanzonato, al punto da firmare per essere dimesso dall’ospedale e rifiutare la barella per tornare a casa con le proprie gambe. «La bellezza – amava dire, seduto a capotavola, dopo avere ascoltato gli altri – è una storia da raccontare. Te ga capio?». Ma le storie infinite esistono solo in letteratura. E Tai lo sapeva.
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