PIU’ BRUCIANTE di una batosta elettorale. Più lancinante di uno smacco politico. C’è nel commiato di Bossi un che di doloroso, di tragico, di toccante. Perché le sue dimissioni da segretario della Lega Nord hanno il sapore amaro della sconfitta privata, personale. Le voci filtrate in queste ore oltre i muri di via Bellerio hanno descritto i colonnelli del Carroccio che gettavano in faccia al vecchio capo le verità più amaramente crude, che gli dicevano che sì, erano vere le contestazioni degli inquirenti, i «danè» della Lega per la casa di Gemonio, quelli per il macchinone del figlio Renzo, il Trota. E il vecchio condottiero, stanco e ferito, rimanere muto, immobile. Fino a uno scatto rabbioso, la mano che cerca il telefono e subito dopo la decisione di rientrare a casa, in famiglia, quella che sul fascicolo del tesoriere Belsito diventa «Family». Per parlare, confrontarsi, soprattutto chiedere. Umberto Bossi ha vissuto e vive ore dolorose. Ha avuto, unico, la forza di fare il classico passo indietro. Per queste due ragioni, almeno, merita rispetto umano. Quello che comunque è dovuto di fronte al dolore.

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