Come sembrano lontani quegli anni, così distanti, così diversi da quelli di oggi, quando la politica tutto è diventata, improvvisazione e Bernum, spettacolo e avanspettacolo, ludi circensi e goliardia. Anche tralasciando, come è giusto, i rimpianti e le malinconie, non si possono scorrere senza emozionato interesse le tante, fitte pagine di “Avanti! Un giornale un’epoca” (Pontre Sisto editore), ultima fatica di Ugo Intini, un protagonista della Prima Repubblica, che del giornale del Partito socialista (fondato nel 1896, morto a 97 anni di morte non eutanasica nel 1993) fu direttore politico. Il nome di Intini si affianca a quelli  di Nenni, Lombardi, Saragat, Pertini, Pieraccini, Arfè, Ghirelli. Nel 1914 “Avanti!” era diretto dal sanguigno socialista romagnolo Benito Mussolini, uno dei capi della sinistra massimalista, che lo abbandonò per abbracciare la causa dell’intervento in  guerra e fondare di lì a poco il “Popolo d’Italia”. Storia del giornale socialista, il primo del movimento operaio. Ma anche una miniera immensa e grazie a Intini finalmente esplorata, di notizie, curiosità, aneddoti. Pochi sanno, per esempio, che Carlo Rambaldi,  creatore  del tenero E.T., è stato uno dei disegnatori, insieme con Galantara, Podrecca, Scalarini, Pino Zac. Intini si vieta (e ci si può immaginare con quanto sforzo) ogni cedimento sentimentale. Ma la commozione affiora, contenuta quasi a forza, si direbbe, ma trasparente, nelle ultime righe dell’ultima pagina, dopo avere rievocato il calvario degli ultimi tempi, i disagi, le ristrettezze, la disoccupazione di giornaslisti e dipendenti, le convulsioni finali prima dell’amarissimo epilogo: “La similitudine con il 1926 che cresceva nel cuore di molti giornalisti dell’Avanti! era suggerita dal dolore e dall’isolamento forse più che dalla realtà. Ma un’altra similitudine, triste e assolutamente reale, stava per concretarsi. L’Avanti! di Nenni, allora, se ne andò e scomparve (caso unico), senza dire una parola agli amici e ai lettori. Se ne andò così, in silenzio, semplicemente perché non sapeva che le ‘leggi fascistissime’, il giorno dopo, ne avrebbero impedito l’uscita. L’Avanti! del 1993 se n’è andato allo stesso modo, senza preavviso e senza commiato. Perché non sapeva che sarebbe morto per inedia. Come un vecchio che non mangia da tempo e improvvisamente trapassa, così è finito l’Avanti! In quel momento, senza un necrologio e un commento. Ma dopo aver vissuto. Dopo una storia che, credo, valeva la pena di raccontare”.
 
Di quella storia Giacomo Mancini è stato larga parte. Mancini,  politico calabrese, parlamentare di lungo corso, segretario nazionale del Psi, più volte ministro nei governi di centrosinistra, venne sospeso dalla carica di sindaco di Cosenza e condannato il 25 marzo 1996 dal tribunale di Palmi a tre anni e sei mesi per concorso esterno in associazione mafiosa. Sentenza annullata per incompetenza territoriale dalla Corte d’appello di Reggio Calabria. Dopo una istruttoria durata quindici mesi, la procura distrettuale di Catanzaro chiese un nuovo rinvio a giudizio e la condanna a due anni e quattro mesi. Il 19 novembre 1999, al termine di un processo di cui l’imputato aveva chiesto lo svolgimento in abbreviato, il leader socialista fu assolto perché “il fatto non sussiste”. Vicenda lunare quella che Enzo Paolini, uno dei difensori, rievoca  con il giornalista Francesco Kostner. Dalla appassionata conversazione è uscito il libro “Agguato a Giacomo Mancini” (sottotitolo “Storia di un processo per ‘ndrangheta senza prove”), edito da Rubbettino. Storia calata nel bel mezzo  di Tangentopoli, paradigmatica del disfacimento di una classe politica, della frantumazione del sistema partitico, delle deviazioni del pentitismo. Su Mancini, come rievoca Giampiero Mughini nella prefazione, si abbattè l’accusa “di aver brigato perché la Cassazione fosse benevola nei confronti del figlio del boss calabrese Natale Iamonte, che in un processo a Bari era stato accusato di omicidio. Contro Mancini un sospetto mica da niente. Lui che fa assolvere il figlio di Iamonte in Cassazione, e il padre che contraccambia facendogli arrivare una valanga di voti alle elezioni politiche. Solo che c’era un piccolissimo particolare. Il figlio del mafioso non era mai stato processato in Cassazione. Perché era stato assolto in appello, e contro quella sentenza la Procura generale non aveva fatto ricorso …”.