Era imponente, roccioso, nodoso. Un naso  come un promontorio, piantato in un volto ruvido che raramente si schiudeva al sorriso. Si chiamava Andrea ma per tutti era Sandrino. Se n’è andato a 88 anni, in silenzio, di notte. Andrea Carrea è stato, con Ettore Milano (scomparso poco più di un anno fa) e Michele Gismondi, il più grande gregario di Fausto Coppi. Forza fisica straordinaria, generosità tanta da regalarne, lealtà assoluta. Internato a Buchenwald, era sopravvissuto a due marce della morte. Nel 1945 lavorava come muratore quando Serse, il fratello di Coppi, lo presentò a Biagio Cavanna, il massaggiatore cieco, l’orbo veggente di Novi Ligure. Cavanna  “sentì” Sandrino, muscoli e calli, e lo spedì ad allenarsi con Fausto e i suoi compagni. Nel Tour del ’52 Carrea vestì la maglia gialla, a Losanna, dopo essersi infilato nella fuga giusta con la generosa comprensione di Coppi. Tenne il simbolo del comando per un giorno e lo restituì al capitano. Dalla vittoria di Coppi nella Grand Boucle ricavò due milioni e tanti bei contratti, andò zigzagando per l’Europa da una riunione all’altra, tornò con un discreto gruzzolo e da alessandrino previdente si costruì la casa a Villarvernia.
 
Fu a suo modo protagonista di uno dei più paradigmatici trionfi coppiani. Giro d’Italia 1953. La corsa pare saldamente nelle mani dello svizzero Hugo Koblet, campione bello e di gentile aspetto, bionda capigliatura imbrillantinata. Coppi è secondo e pare rassegnato alla sconfitta. Deciderà la tappa di Bormio, 125  chilometri, da scalare lo Stelvio con i suoi 2.758 metri. Tappa da leggenda e la leggenda se ne impadronisce, adornando la realtà con i fiocchi della fantasia. Il giorno prima Coppi ha attaccato, ha staccato il rivale, ma Koblet, formidabile discesista, è riuscito a recuperare. I due si sono presentati insieme sulla pista in terra battuta di Bolzano, Fausto ha vinto in volata.
 
La sera in albergo Aldo Zambrini, patron della “Bianchi”, convoca la squadra. “Domani – intima – si vince il Giro”. Coppi è tentennante. “Ma, commendatore …”. Zambrini replica, tranchant: “Se hai preso degli accordi con Koblet hai fatto male. Domani si vince”. Si dice che Coppi esca turbato dal summit e ordini ai suoi gregari corsa dura dall’inizio. Alla partenza, Koblet porta gli occhiali scuri. Ettore Milano lo convince a toglierli con la scusa di una fotografia. Gli occhi dello svizzero sono stanchi, infossati. Buon segno. I gregari di Coppi circondano la maglia rosa. L’andatura è sostenuta. Attorno all’ottantesimo chilometro Coppi si rivolge a Carrea: “Pappagallo, cosa stai facendo? Non tirare così”. E’ la frase in codice concordata. Sandrino si porta in testa e imprime un ritmo forsennato. Il gruppo si sfila. Il piano sta funzionando. Gli uomini della “Bianchi” hanno trovato un alleato nel giovane corridore torinese Nino Defilippis, che veste la maglia verde oliva della “Legnano”. Si sale fra due pareti di neve. A undici chilometri dalla vetta è in testa un plotoncino con Coppi, Koblet, Bartali, Defilippis, Fornara, Coletto, Ruiz e lui, Andrea Carrea.  Coppi confabula con Defilippis. “Cit (piccolo in torinese), te la senti ancora?”. Defilippis se la sente e s’invola. Coppi parte a riprenderlo con Koblet alla ruota. Coppi attacca. Si alza sui pedali. Ancora una volta, forse l’ultima. Koblet cede. Si dice (lo dice la leggenda) che prima di staccarlo Fausto mormori a Hugo qualcosa come “scusami”. A Bormio Coppi è maglia rosa. Il Giro è suo. Merito anche dello straordinario Carrea. Addio allora, Sandrino. Chissà quante belle pedalate in cielo con Fausto e Ettore.