Beati gli ultimi se i primi non esagerano. All’inizio il discorso è nato così circa la problematica convivenza tra movimento cooperativo e imprenditoria privata. Il discorso si è acceso a Bologna ma va bene per qualunque altro angolo dell’Emilia Romagna o delle Marche, perché l’importanza delle coooperative è legata alla nostra storia, alla storia politica delle nostre regioni, e tutto si può cambiare meno che il passato. Del resto non se ne vedrebbe la ragione visto che risulterebbe anacronistico buttarla in politica, quasi fosse un rimasuglio di guerra fredda. Però è nata come la storia del pesce grosso (coop) che mangia quello piccolo (privati) dopo una notazione sulla città momonarca, ovvero dopo l’ultima acquisizione delle cooperative nella rete di distribuzione. Una critica quella della monomarca che ha indotto Adriano Turrini, presidente della Coop Adriatica, a ribaltare sugli imprenditori la responsabilità di non cogliere le opportunità o per pigrizia o per mancanza di coraggio. “Noi che dovremmo fare? Dovremmo andarcene?”, è stata la sua domanda.

Con il passare dei giorni poi il discorso si è allargato fino a diventare una sorta di esame di coscienza pubblico da parte di chi ha responsabilità nel mondo dell’economia e della produzione. Segno che c’è voglia di giudicarsi e dunque di non sottrarsi al confronto e di cercare di capire per trovare nuove idee e chiudere con una fase per aprirne un’altra. Con il costume consueto del Carlino di ascoltare senza pontificare in conclavi magari a invito siamo arrivati al punto di vedere la questione coop solo come un tratto distintivo di un mondo ben più ampio che riguarda economia e politica. E nella tensione che l’argomento suscita colgo la misura di una mentalità sempre viva e tipica della nostra gente, che, passata da un’epoca ormai chiusa, continua ad esprimersi con la tramandata convinzione di dover interagire e contrastare un individualismo che rappresenta il limite più grave della risposta da dare ad un made in Italy fatto di piccoli senza capitali.

Per interpretare un presente attraverso un passato raccontato fuori dai canoni, ho ripreso in mano le lettere che Giuseppe Prezzolini scriveva da New York ai pochi amici che aveva. E ho pensato a lui in quanto modello di uomo libero e controcorrente. Ebbene, in una lettera indirizzata a Giovanni Papini scrive: “L’italiano è individualmente un carissimo compagno di viaggio o di cena o di conversazione, di avventura e di svago, ma come socio e come concittadino è invidioso, velenoso, mancante di senso sociale e di senso civile (…) e mette la sua intelligenza, spesso superiore, non al servizio del pubblico, ma del proprio comodo”. Credo siano questi i difetti su cui intervenire. Lui queste cose le scriveva nel 1945 ma vanno bene anche per oggi.