Essere primi e non vincere

CI SONO alcune buone ragioni che faranno da deterrente alla tentazione di andare alle elezioni anticipate, in teoria unica soluzione in un paese che ha i numeri perfetti per essere ingovernabile. La prima ragione rimanda al movimento dei grillini, che avrebbe tutti i motivi per tornare alle urne, forte dell’esperienza tutta umana e ancor più […]

CI SONO alcune buone ragioni che faranno da deterrente alla tentazione di andare alle elezioni anticipate, in teoria unica soluzione in un paese che ha i numeri perfetti per essere ingovernabile. La prima ragione rimanda al movimento dei grillini, che avrebbe tutti i motivi per tornare alle urne, forte dell’esperienza tutta umana e ancor più tutta italica per la quale nessuno riceve tanti soccorsi quanto chi vince. Le elezioni anticipate insomma renderebbero stracarico il già carico carro del vincitore Grillo. Ricordate che cosa accadde a Berlusconi nelle elezioni europee che si tennero tre mesi dopo la grande vittoria del marzo ’94? Lo votarono anche i gatti. Per la proprietà transitiva le elezioni anticipate vengono considerate ipotesi da scongiurare sia dal Pd che dal Pdl, perché nessuno dei due vedrebbe crescere in modo significativo il proprio serbatoio voti.

PROBABILMENTE Berlusconi potrebbe raggranellare qualche voto in più, sulla spinta della sua rimonta e non accadrebbe altrettanto a Bersani che ha vinto male e con affanno. Timore niente affatto infondato visto che non sono pochi gli amici di Renzi con il dente avvelenato. Non resta che sperare che un governo lo facciano ma non è detto ci riescano.

Il 1° novembre del 2011, ovvero negli ultimi giorni del governo Berlusconi, la borsa crollò del 6,8, ieri dopo quasi un anno e mezzo di ripresa ha fatto un tonfo paragonabile a quel precedente ed è precipitata a quasi meno 5. Se non è un segnale di allarme che mandano i mercati preoccupati dall’ instabilità conseguente al voto che cos’è? Un segnale così dovrebbe essere rapidamente raccolto e invece abbiamo assistito ad una reazione di Bersani, che ci è parsa impacciata e vaga. Chiusa la leggera campagna elettorale del giaguaro da smacchiare, il leader del Pd ha risfoderato un politichese che più polveroso non poteva essere, parlando di un non meglio precisato governo, che sarebbe disposto a dar vita, nel caso in cui il Capo dello Stato gli affidasse l’incarico di formarlo, ma senza precisare di che tipo e a che pro. Al contrario si è dilungato nelle definizioni chiamandolo governo combattente, di cambiamento, di corresponsabilità ma senza dire da chi dovrebbe essere formato, a chi dovrebbe essere precluso, con quali uomini formarlo, e magari con quali nomi e cognomi, su che programma. Ha indicato genericamente riforme delle istituzioni, dei partiti, in difesa del ceto popolare e del lavoro. Ha accennato a Grillo ma con cautela, non ha accennato a Berlusconi ma non lo ha escluso e di Monti non v’è traccia. Un balletto di parole molto generiche e ben diverse da quelle reclamate da un elettorato in rivolta, che pretende nettezza di comportamenti e di linguaggio, possibilmente nuovo. Troppa ambiguità, a cominciare dal giudizio di essere arrivato primo senza aver vinto. Che vuol dire? Sembra di essere tornati ai tempi delle convergenze parallele. Divampa un incendio in casa e i signori sono momentaneamente impegnati in un’accurata scelta dell’acqua minerale da usare per spegnerlo.