ESATTAMENTE venti anni fa, il 12 aprile del 1995, chiuse la Voce di Indro Montanelli. Nel suo fondo d’addio, “Uno straniero in Italia”, il più importante testimone del Novecento cercò di spiegare le ragioni della crisi che portò alla fine di quella grande avventura editoriale (e non solo): «Di questa crisi potrei fornire varie spiegazioni, per così dire, congiunturali». Cilindro ne enumera alcune: dal pauroso calo della pubblicità, all’impennata dei costi e al distorcimento del mercato con la proliferazione di supplementi, inserti e gadgets d’ogni genere. A rifletterci, sono gli stessi fattori che rendono sempre più incerto il futuro dei giornali nell’attuale panorama italiano. Se possibile, nel frattempo, i problemi sono anche aumentati: basti pensare al “boom” di Internet, con il conseguente crollo delle copie vendute dei quotidiani cartacei, e alla cattiva distribuzione dei giornali, con molte edicole che sono costrette a chiudere anche per gli orari di apertura assolutamente poco flessibili.

MA, AL DI LÀ dei motivi economici, la Voce è stata, per molti versi, un’utopia. Montanelli e i “ragazzi” che l’hanno seguito (tra cui il sottoscritto), speravano di dar vita a una voce davvero libera, un giornale formato “public company” in cui l’unico padrone avrebbe dovuto essere il lettore. La nostra, è stata soltanto una pia illusione, tanto è vero che, anche nello scenario attuale, l’unico gruppo in Italia controllato da un editore puro – che, cioè, non abbia altri interessi economici preminenti -, è proprio la Poligrafici Editoriale a cui fa capo il “Giorno”: un segnale di grande indipendenza che, anche nel ricordo di Montanelli, “un giornalista, solo un giornalista”, dovrebbe essere particolarmente sottolineato. TORNIAMO al toscano di Fucecchio: l’amarezza traspare in ogni riga del suo “autunnale” editoriale di addio, quel giorno di primavera del 1995: «Sono stanco di grufolare nel pantano in cui si è ridotta la vita pubblica italiana, dove non si può muovere un passo senza imbrattarsi… Chiedo ai lettori di riconoscermi il diritto di congedo. Mi mancheranno i lettori, quei “lettori”. Mi mancheranno terribilmente. Spero di mancare anch’io un poco a loro». Quelle righe scritte quattro lustri fa sembrano terribilmente attuali: il pantano della politica ancora oggi non è stato prosciugato, anzi. È come se Cilindro fosse, vent’anni dopo, rimasto inchiodato nell’ufficio di via Dante, seduto alla sua scrivania, con il piccolo busto di Lenin davanti e il quadro di Maccari dietro, a battere i grossi polpastrelli (i “ditoni”) sui tasti della mitica Olivetti Lettera 32. Sì, la speranza di Montanelli è diventata una realtà: lui continua a mancarci tantissimo, forse più di prima. E aveva anche ragione: in certi casi, si può essere fieri persino di una sconfitta.

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