NO, NON È LA BBC come cantava Renzo Arbore, ma poco ci manca. Il ddl di riforma della Rai, per ora solo discusso dal governo, può essere considerato un tentativo di compromesso tra il progetto del premier Renzi di togliere l’ente radiotelevisivo pubblico dall’orbita di tutti i partiti, tranne il suo, e le richieste delle opposizioni che chiedono, giustamente, di non uscire di scena. In effetti, il pluralismo dovrebbe essere garantito dal fatto che quattro membri del consiglio d’amministrazione, ridotto a sette unità, verrebbero nominati dal Parlamento – non in seduta comune, come ipotizzato, in un primo tempo, da Palazzo Chigi, perché sarebbe necessaria una modifica costituzionale, ma due dalla Camera e due dal Senato -, mentre altri due sarebbero designati direttamente dal ministro dell’Economia. In particolare, il presidente della Rai verrebbe scelto tra i quattro consiglieri “parlamentari” a differenza dell’amministratore delegato, con poteri più ampi rispetto a quelli attribuiti all’attuale direttore generale, che sarebbe, invece, indicato dal governo.

IL SETTIMO e ultimo membro, secondo il modello tedesco (in Germania la chiamano Mitbestimmung che vuol dire “codecisione”), sarà infine votato dagli stessi dipendenti della Rai. A mio parere, accanto a qualche ombra, ci sono due aspetti positivi nel disegno di legge che dovrà essere approvato entro il prossimo luglio: il fatto che sia prevista la figura di un manager veramente esecutivo con maggiori poteri e la novità della rappresentanza diretta dei lavoratori di viale Mazzini. Per il resto, i partiti continueranno ad avere, in qualche modo, voce in capitolo: se fino ad oggi, è stata, infatti, la commissione bicamerale di Vigilanza Rai, dove sono rappresentate tutte le forze politiche, a varare l’intero Cda, domani, se il progetto andrà in porto, sarà compito dei due rami del Parlamento scegliere la maggioranza degli amministratori. In concreto, sotto questo aspetto, non cambierà dunque moltissimo: c’erano i partiti prima, ci saranno anche dopo. A differenza di alcune proposte precedenti del premier che aveva suggerito il coinvolgimento di certe fondazioni nella scelta dei consiglieri, dovrebbe essere, comunque, garantito il pluralismo dell’informazione, come previsto dalla Corte Costituzionale in una sentenza del 1974.

IL PROGETTO di Renzi prevede altre modifiche che, sostanzialmente, potrebbero essere condivise. Innanzitutto, è finalmente prevista la caccia all’evasione del canone radiotelevisivo, un nostro vecchio cavallo di battaglia, che, da sempre, raggiunge cifre astronomiche a danno dei soliti noti sempre in regola. Con la riforma, la tassa verrà, infatti, pagata, assieme alla bolletta della luce e, in tal modo, sarà ridotta dagli attuali 113,50 euro l’anno a poco più della metà. Nulla da eccepire anche sulla creazione di tre reti tematiche, di cui una con una forte matrice culturale senza pubblicità. Così come una certa cura dimagrante con l’accorpamento di varie redazioni e lo sfoltimento delle direzioni. Resta in piedi la commissione di Vigilanza (ha ancora senso?) con i soli compiti di indirizzo e di controllo che potrebbero essere direttamente esercitati dal Parlamento. Stiamo ora a vedere cosa succederà nei prossimi mesi. Considerando i tempi ristretti, c’è infatti, un grosso rischio: che vada in onda l’ennesima telenovela.

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