STASERA sarà l’ultimo saluto di Capodanno agli italiani, il nono consecutivo, di Napolitano. Da gennaio tutto cambia e l’inquilino del Colle lascerà definitivamente il Quirinale. Con l’arrivo del 2015 si chiude una presidenza che resterà, comunque, speciale nella storia della Repubblica, perché Re Giorgio è stato l’unico Capo dello Stato rieletto e l’unico che si è dimesso dopo neppure due anni del mandato-bis. Come è già successo nel 2013, i giudizi sul suo operato si divideranno: chi metterà in luce i tanti aspetti positivi, da uomo super-partes dopo una carriera politica trascorsa all’ombra delle Botteghe Oscure, chi criticherà, invece, alcune scelte come l’imposizione dall’alto di Mario Monti, nominato in fretta e furia anche senatore a vita, o l’allontanamento troppo sbrigativo di Enrico Letta da Palazzo Chigi, senza mai passare dalle urne. Al di là di qualche aspetto discutibile, Napolitano si è dimostrato, però, un vero servitore dello Stato: ha sempre saputo anteporre gli interessi generali, prima di partito e poi della nazione, a quelli personali.

DUE EPISODI praticamente inediti – che mi ha rammentato un amico migliorista di Napolitano della prima ora, Aldo Bacchiocchi -, danno l’idea della sua caratura, soprattutto in questi momenti di caos e di malaffare. Il primo episodio risale ai tempi del Pci e della segreteria Longo. Giorgio era, allora, di fatto, il vice-segretario, ma, per fare posto a Enrico Berlinguer, che poi diventerà il «numero uno» del partito, accettò di essere spostato al dipartimento cultura. Qualcun altro avrebbe protestato, ma, da buon soldato, accettò il declassamento e contribuì, così alla nuova primavera comunista con la crescita del leader sardo.

L’ALTRO EPISODIO avviene, invece, subito dopo essere stato eletto (la prima volta) Presidente della Repubblica. Napolitano andò, infatti, subito a trovare il socialista Antonio Giolitti e quella visita assunse un significato molto particolare. Una delle maggiori critiche al futuro Capo dello Stato fu, infatti, di avere approvato la repressione in Ungheria nell’ottobre 1956. Quell’insurrezione mise in luce la grande voglia di libertà dei giovani di Budapest che scesero in piazza per protestare contro l’oppressione della dittatura di Mosca. I comunisti italiani, allineati e coperti con il potere sovietico, avallarono l’arrivo dei carri armati russi nella capitale magiara e anche Napolitano s’adeguò. A distanza di cinquant’anni, quell’incontro con Giolitti, subito dopo la scalata del Quirinale, aveva un significato ben preciso: Napolitano riconosceva, in tal modo, che, nel 1956, aveva sbagliato tutto. Già prima, del resto, si era allineato alle posizioni della socialdemocrazia quando aveva criticato, all’interno del Pds, la segreteria di Occhetto che non aveva allargato gli orizzonti del partito verso posizioni più europee e moderate. Se vogliamo, Napolitano chiude con un grande cruccio: per anni ha invocato la stagione delle grandi riforme raccogliendo, però, solo un pugno di mosche. Ma questa non è stata, certo, solo colpa sua: ora, a novant’anni, alla faccia della moda dei giovani con due “g” alimentata da Renzi, può concedersi finalmente una meritata pensione.