“A PARTE le guerre puniche, mi viene attribuito veramente tutto”. In queste parole c’è lo stile di Giulio Andreotti, che è scomparso ieri alla bella età di 94 anni. Un’ironia a metà tra l’”aplomb” britannico e il cinico “cacio e pepe”  trasteverino, condita con la verità nuda e cruda, perché il “divin Giulio” è sempre stato l’ago della bilancia, l’eminenza grigia, il Grande Burattinaio della Prima Repubblica.Un politico cresciuto alla scuola di De Gasperi che, fin da ragazzo, quando militava nelle file degli universitari della Fuci, ha respirato il potere ai massimi livelli, con i suoi giochi più o meno perversi, tanto da dover ammettere, più avanti negli anni, con quella acutezza che è sempre stata la sua forza, che il potere logora solo chi non ce l’ha. Uomo controverso, spesso criticato e discusso,ma grandissimo, custode di segreti e storie come nessun altro, è stato capace di pilotare il Paese tra mille secche e mille agguati. Sempre pronto al dialogo, a costruire, tanto da diventare, contemporaneamente, l’uomo vicino alla Chiesa e ai Papi e il mediatore privilegiato con il mondo arabo.

È STATO un vero uomo di pace, forse perché aveva conosciuto le privazioni e i dolori della guerra, sempre pronto a schierarsi in prima linea quando le tensioni internazionali rischiavano di degenerare. I suoi critici l’hanno dipinto come una specie di Belzebù pronto a tramare nelle tenebre e a costruire scenari che avevano un solo obiettivo: perpetuare all’infinito il suo potere. Andreotti era, però, anche esattamente il contrario del proprio stereotipo: modestissimo nella vita privata, profondamente religioso, ma anche amante della vita, a cominciare dalla squadra di calcio del cuore, la Roma. Cominciava sempre la giornata con la messa: la sua vita, così come l’impegno politico, era una missione al servizio degli altri. Lo ricordo, una volta, al convegno dell’Osservatorio Giovani della Bagnaia, da lui sempre privilegiato perché riconosceva le enormi potenzialità delle nuove generazioni, che, al mattino presto, si faceva aprire l’antica cappella per andare a pregare. Solo la preghiera, diceva, gli dava la forza necessaria per affrontare i calvari della giornata.
CERTE VOLTE, soprattutto negli ultimi tempi, il bisogno di rifugiarsi nella pace di una chiesa diventava assillante: un uomo della sua scorta mi confessò che, spesso, all’alba, si presentava ai suoi collaboratori vestito di tutto punto, dicendo loro: “Andiamo a messa!”, come in preda a un bisogno assoluto di eternità. Politico fin nel midollo, Andreotti è stato, assieme a De Gasperi e a qualche altro, uno dei pochi, veri statisti italiani dal dopoguerra a oggi. Se adesso la classe politica è tanta odiata, c’è un motivo: in circolazione non ci sono quasi più personaggi della sua grandezza e onestà. Personaggi capaci di far crescere, politicamente parlando, i propri allievi, perché non temevano il confronto e sapevano guardare avanti e prevedere il futuro.

IL SENATORE A VITA (con la sua scomparsa, ci sono ora tre caselle vuote) è stato in grado di anticipare i cambiamenti prima di molti: partecipai con lui, un suo amico cardinale e alcuni imprenditori, tra cui Marisa Bellisario, a un viaggio in Cina che, allora, non era certo vicina, anzi. Al di là della Muraglia, Andreotti comprese, prima degli altri, le immense possibilità di sviluppo di quel pianeta, che pure era diametralmente opposto alle sue convinzioni politiche, gettando le basi di partnership che si sono poi sviluppate nei successivi decenni. Anche su Pechino aveva visto giusto. Nonostante i tanti onori e gli svariati governi che portano il suo nome (Andreotti I, Andreotti II, Andreotti III, ecc.: una vera litanìa), Giulio, da oggi ancora più divino, non ha mai perso quel suo intelligente modo di essere, fatto d’arguzia, humor e modestia. Diceva sempre: “L’umiltà è una virtù stupenda. Ma non quando si esercita nella dichiarazione dei redditi”. Sic transeat gloria mundi.
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