Le confessioni di Marcinkus

IN QUESTI GIORNI sono stati giustamente versati fiumi d’inchiostro sulla canonizzazione dei due Papi. In particolare, tra i servizi che mi hanno colpito di più, ho annotato un’intervista su Giovanni Paolo II del giornalista Ias Gawronski, anche lui di origini polacche, che aveva conosciuto molto da vicino Papa Wojtyla. SANTO SÌ, KAROL, ma anche grandissimo […]

IN QUESTI GIORNI sono stati giustamente versati fiumi d’inchiostro sulla canonizzazione dei due Papi. In particolare, tra i servizi che mi hanno colpito di più, ho annotato un’intervista su Giovanni Paolo II del giornalista Ias Gawronski, anche lui di origini polacche, che aveva conosciuto molto da vicino Papa Wojtyla.

SANTO SÌ, KAROL, ma anche grandissimo mediatore politico, capace di condizionare gli equilibri nel mondo. Dice Gawronski: «I suoi viaggi nella Polonia comunista sono stati un esempio di diplomazia: una parola in più e avrebbe infiammato la rivoluzione, una parola in meno e sarebbe stato accusato di cedere al regime». In realtà il sottoscritto ha avuto una versione diversa sul ruolo di Wojtyla nella Varsavia rossa di quegli anni. Me la fornì l’arcivescovo Paul Casimir Marcinkus, “il banchiere di Dio”, la discussa eminenza grigia dello Ior, la banca vaticana.

Per un colpo di fortuna, scoprii dov’era finito in esilio il prelato americano di origini lituane, dopo essere stato estromesso da Giovanni Paolo II, e l’andai a scovare nel suo rifugio di Phoenix, in Arizona. Marcinkus mi invitò a cena e confessò perché, nonostante i suoi tanti peccati, il pontefice polacco non l’avesse allontanato prima: lo Ior aveva copiosamente finanziato Solidarnosc, il movimento guidato da Walesa per rovesciare il regime comunista.

Chi ha ragione? Gawronski, che sottolinea l’assoluta neutralità di Karol, o Marcinkus, che, a suo tempo, si era soffermato sul ruolo attivo del Papa? Oggi, di fronte a un Santo nuovo di zecca, spero che sia stato l’uomo dello Ior a dirmi una mezza bugia, magari per prendersi una vendetta non ancora postuma. Lo spregiudicato arcivescovo americano, accompagnandomi in albergo dopo cena con la sua auto, cantò a squarciagola “Arrivederci Roma”, ma si sbagliava, perché nella città eterna non mise più piede.

giancarlo.mazzuca@ilgiorno.net