VORREI CONFESSARE un piccolo segreto che, scusatemi il gioco di parole, è quasi inconfessabile: essere anch’io cercato per telefono dal Papa. Mi piacerebbe molto alzare la cornetta del mio fisso, in redazione, e sentirmi dire: “Sono Francesco…” perché sono convinto che una chiamata, sia pur via filo, da San Pietro, valga come un lasciapassare per il Paradiso. Dietro le dirette con il Pontefice, c’è spesso una tragedia, un dolore insanabile, ma Sua Santità Bergoglio non cerca solo le pecorelle smarrite.

Qualche volta, come è successo alcuni giorni fa, a un giovane studente del Padovano, è bastata una letterina che il ragazzo ha lasciato a un cardinale, a Castel Gandolfo, per ricevere la santa chiamata, anzi due per la semplice ragione che, alla prima telefonata, l’interpellato non era in casa. Con molta umiltà, approfitterei così della mia rubrica sul “Giorno”perchè qualche cardinale interceda anche per me. Se il Papa mi chiamerà, gli chiederei almeno due cose. La prima: come si può avere fiducia nel futuro in un mondo dominato dalla violenza, dal sangue e dall’incertezza? Come i nostri figli possono credere in un domani migliore?

E, poi, gli domanderei: dopo qualche mese trascorso in un Paese scombinato e confuso come l’Italia d’oggi, lei (o tu?) non comincia ad avere un po’ di sana saudade per la sua lontana Argentina e per la vita semplice e laboriosa che conduceva prima. Quando un lontano parente del vicario di Cristo, Omar Sivori, detto “el cabezon”, calcava i campi di calcio della penisola, la situazione era forse migliore dell’attuale: eppure anche allora la melanconia prendeva l’anima degli oriundi come una malattia. Chissà se avrò risposta: sperare humanum est, ma, quando c’è di mezzo il Papa, è ancora di più.