MI PIACEREBBE tanto chiedere a Gabriele Del Torchio chi mai l’ha convinto a prendere la patata bollente di Alitalia. Prima se ne stava tranquillamente a Bologna alla guida della Ducati: da quando ha preso in mano la “cloche” della compagnia di bandiera, l’amministratore delegato sembra invecchiato di dieci anni. In effetti – checché ne dica il ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi, sempre ottimista sulla vicenda -, la conclusione delle trattative con gli arabi di Etihad appare in salita.  Domani il manager volerà ad Abu Dhabi, con il presidente Roberto Colaninno, per cercare di stringere. Non sappiamo in che modo i colloqui andranno a finire, ma una cosa è certa: a un anno dall’Expo, con tutte le previsioni trionfali sull’invasione di operatori esteri a Milano e dintorni, l’Alitalia è, comunque, costretta ad abdicare e, questa, non è certamente una bella prospettiva per il “made in Italy”.

ABITUATI ad attingere a piene mani alle casse dello Stato, i vertici della compagnia pensavano di fare altrettanto con gli sceicchi, ma i tempi delle vacche grasse sono finiti anche nel regno dei petrodollari e così, per arrivare ad un accordo con gli arabi, è probabile un cedimento su tutti i fronti.
La compagnia verrà suddivisa in due società: nella prima, in profitto, al 51% Cai e al 49% Etihad, saranno concentrate le attività sane, mentre nella seconda verranno scaricati tutti i debiti (565 milioni) oggi rinegoziati con le banche. Non solo: arriveranno al pettine le tante eccedenze di personale (2500 unità) con prepensionamenti, cassa integrazione e, forse, licenziamenti.
In altre parole, gli azionisti di Abu Dhabi si compreranno solo ciò che vogliono, cioè le rotte e gli aeromobili, inserendo negli organici il proprio personale. D’altra parte, con le astronomiche passività che si ritrovano, i vertici di Alitalia hanno le spalle al muro: dovranno, così, accettare tutti i diktat degli arabi, decisi a trasformare la compagnia in una specie di società “low cost”, in grado di competere, in Italia, con il servizio ferroviario: ecco perché sarà privilegiato lo scalo di Linate a scapito di Malpensa che, proprio alla vigilia dell’Esposizione, rischia grosso.
La strada appare obbligata. Già qualche anno fa, un addetto ai lavori mi fornì quest’immagine di Alitalia: una compagnia guidata da un buon corridore di “rally”, con, al suo fianco, un pessimo navigatore, nel senso che, soprattutto la politica commerciale, è stata insufficiente. I vari governi che, in questi anni, si sono succeduti debbono fare “mea culpa”: la crisi della compagnia è il segno tangibile del declino di un Paese che vive di turismo ma non lo dimostra.
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