QUALCUNO già l’ha chiamato il governo di Enrico Renzi. L’ex sindaco di Firenze sperava, in cuor suo, di tracciare una cesura netta rispetto al precedente esecutivo, ma le complesse alchimie per formare la squadra hanno, in parte, snaturato il progetto originario. Infatti, niente di veramente nuovo sotto il segno di Matteo, a parte qualche giovane ministra in più e qualche colpo a sorpresa come la defenestrazione di Emma Bonino dagli Esteri.

Il nuovo premier ha ascoltato quasi tutti: un colpo alla botte e uno al cerchio. Ha accontentato il Nuovo Centrodestra, con la riconferma di tre ministri (Alfano, Lorenzin e Lupi); ha accontentato i dalemiani e la vecchia guardia Pd, con la designazione del tecnico Pier Carlo Padoan all’Economia e di Dario Franceschini ai Beni culturali; ha accontentato i berlusconiani, con un personaggio considerato moderato come Andrea Orlando alla Giustizia e con Federica Guidi allo Sviluppo Economico; ha accontentato il mondo della cooperazione con Giuliano Poletti al Lavoro e pure i casiniani con Gian Luca Galletti all’Ambiente. A ben vedere, gli unici che non sembrano siano stati troppo favoriti sono proprio gli industriali che avevano, invece, inferto il colpo di grazia a Letta. In effetti, la modenese Guidi è un’imprenditrice (è stata anche presidente nazionale dei Giovani di Viale dell’Astronomia), ma suo padre, da sempre in Confindustria, è più vicino al Cavaliere piuttosto che a Giorgio Squinzi.

MI VERREBBE, a questo punto, da chiedere perché, allora, è stato fatto tanto rumore per nulla. Valeva davvero la pena sostituire in corsa il giovane Letta con l’altrettanto giovane Renzi? Penso che due fattori abbiano giocato un ruolo determinante. Da una parte, ci sarebbe stato un certo mutamento degli equilibri nelle stanze del potere. Un esempio? Il governo precedente, stando alle chiacchiere di Palazzo, avrebbe riconfermato diversi top-manager in scadenza nel pacchetto di nomine pubbliche da varare nelle prossime settimane, mentre Renzi sembra, invece, deciso a procedere a diversi ricambi.

Dall’altra, avrebbe anche pesato il recente viaggio di Giorgio Napolitano a Strasburgo, nel senso che il Colle ha dovuto dare precise garanzie in vista del semestre di presidenza europea dell’Italia. I nostri partner apparivano, infatti, molto perplessi sugli impegni presi da Letta, considerando che il suo governo si sarebbe, con ogni probabilità, concluso molto presto. Non è un caso che Matteo continui, oggi, ad insistere che il suo esecutivo, se riuscirà a mantenere la tabella di marcia delle riforme, andrà avanti fino al 2018: un modo per rassicurare i potenti e critici europei sulla solidità del nostro sistema. Troppo ottimista Renzi? Non possiamo fare a meno, però, di sperare che abbia ragione e che ce la faccia.
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