È UN’ATMOSFERA davvero strana quella con cui gli italiani celebrano la ricorrenza dell’8 settembre 1943, settant’anni esatti dall’armistizio e dalla fine della guerra. Da una parte ci sono venti bellici sul fronte siriano che non fanno presagire nulla di buono, nonostante i digiuni e le marce per la pace, dall’altra si respira un’aria così pesante a casa nostra, che, per certi versi, richiama un po’ il clima di guerra civile di allora. Se in altri tempi, le celebrazioni assumevano, per tutti noi, un profondo significato di riscatto nazionale perché il Paese era stato in grado di risorgere dalle macerie di un conflitto devastante, oggi quell’8 settembre, considerando i chiari di luna attuali, assume un aspetto vagamente iettatorio. Infatti, anche nell’anno di grazia 2013, l’Italia si ritrova in ginocchio, o giù di lì, il governo, talvolta, sembra anch’esso finito in esilio a Brindisi, molte famiglie sono allo sbando con la crisi economica che non dà tregua.

ECCO perché è essenziale che ci sia un nuovo scatto d’orgoglio degli italiani, a cominciare, ovviamente, dai politici che – mettendo da parte, per una volta, gli interessi personali -, debbono puntellare l’esecutivo Letta e cercare in tutti i modi di raddrizzare la baracca cogliendo al volo le opportunità di ripresa che si profilano all’orizzonte. Siamo riusciti a risorgere 70 anni fa, perché non dovremmo essere capaci, adesso, di fare altrettanto? E proprio per capire la confusione di quei giorni lontani e come riuscimmo a voltare pagina, vorrei ricordare un piccolo episodio. Dunque, dopo l’armistizio con gli Alleati subito dopo l’8 settembre, l’Italia di Badoglio doveva schierarsi contro la Germania di Hitler e bisognava, quindi, consegnare ufficialmente la dichiarazione di guerra a un legittimo rappresentante del Terzo Reich.

IL MARESCIALLO d’Italia aveva scelto, per la consegna, il nostro ambasciatore a Madrid, il marchese forlivese d’adozione Giacomo Paulucci de’ Calboli. Questi girò subito la palla al suo segretario d’ambasciata, incaricandolo di recarsi negli uffici della sede diplomatica tedesca in Spagna e di consegnare la nota al funzionario che l’avesse ricevuto. Cosa che l’incaricato puntualmente fece, ma quando il diplomatico tedesco capì di cosa si trattava, inseguì l’italiano per strada per restituirgli il foglio. Ne seguì una vera e propria battaglia con il rappresentante di Hitler che cercava in tutti i modi di infilare la dichiarazione nella tasca dell’assistente di Paulucci de’ Calboli che, da parte sua, in tutti i modi la respingeva. Vinse il tedesco e il nostro segretario se ne tornò a casa scornato. Ma l’ambasciatore non si scompose e trovò immediatamente la giusta formula: in base al diritto internazionale, disse, non era necessaria la consegna della dichiarazione di guerra, bastava che il diplomatico, ormai nemico, ne avesse letto il contenuto. Penso proprio che ci vorrebbe, oggi, un altro Paulucci de’ Calboli che, invece della dichiarazione di guerra, invitasse a un bell’armistizio Napolitano e Berlusconi. E magari, pensando in grande, anche Obama e Putin.

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