Vibravo di vertigine. C’è quest’espressione in un vecchio pezzo dei Baustelle (“Gomma”) che racchiude l’essenza di una serata. Di un concerto, il sesto concerto di Patti Smith che ho visto nella mia vita (l’altra sera allo Sferisterio di Macerata). Qui le abitudini non si mescolano con le emozioni. Perché l’abitudine sa già di noia, di trito e ritrito. Da un concerto di Patti Smith sai già invece che cosa ti aspetterai, come scaletta, ma non vedi l’ora di riviverlo, non per anticipare il vicino di posto, su quale sarà la prossima canzone, ma proprio per gustare fino in fondo quella sensazione lì. Quel vibrare di vertigine, cui si faceva cenno sopra. E’ indescrivibile – come qualsiasi situazione – ma è qualcosa che si avvicina al punto più alto che si raggiunge, quando si è bambini, con l’altalena. Una scarica elettrica. Senza che la suddetta Patti imbracci necessariamente una chitarra amplificata. Basta la voce. Una voce scavata dal tempo, ma raffinatasi, che riesce a racchiudere la rabbia punk (senza portarsi dietro il campionario della musica punk che poi è il negare la tecnica per riaffermare la provocazione) e punte di lirismo che vanno ricercate nei suoi classici: da San Francesco a Verlaine, non solo il Tom dei Television (ovviamente). E in più c’è questo suo ultimo disco, “Banga”, che non è un disco di passaggio. Uno di quelli che sono stati pubblicati per dire qualcosa del tipo: “Tranquilli, faccio ancora dei dischi”. Ma è un album che riesce a trovare il suo spazio in scaletta. Non solo con la title track, ma con “April fools” con cui sognare che la primavera arrivi sempre puntuale. E che Patti continui a cantarla. Ancora per parecchio.