“Hai paura del buio?” Ma se non fosse solo un festival

Per ora è un festival. Ha un direttore artistico e in quel ruolo lì Manuel Agnelli funziona quasi come nel suo ruolo principale, quello di cantante degli Afterhours. Gli intenti – dopo le puntate precedenti che si chiamavano “Tora Tora” e “Il paese reale” – sono nobili: accendere la luce sulla realtà artistica italiana sfidando il buio che […]

Per ora è un festival. Ha un direttore artistico e in quel ruolo lì Manuel Agnelli funziona quasi come nel suo ruolo principale, quello di cantante degli Afterhours. Gli intenti – dopo le puntate precedenti che si chiamavano “Tora Tora” e “Il paese reale” – sono nobili: accendere la luce sulla realtà artistica italiana sfidando il buio che è stato imposto dalla crisi. L’offerta però – a prescindere da chi andrà occupare il palco – resta più o meno sempre la stessa. Lui, Manuel, sostiene che sia “sterile” continuare un dibattito sullo stato dell’arte in Italia. Forse è così, ma vale la pena magari continuare a interrogarsi, soprattutto ora e con una pubblicistica al riguardo tra l’altro piuttosto ricca, di come una politica culturale sia quanto mai necessaria in questo paese. Senza ricorrere – come ricorda tra l’altro Tomaso Montanari nel suo recente libro “Le pietre e il popolo” – alla solita frase-scorciatoia, ma tutt’altro che a effetto, “il nostro patrimonio artistico è il nostro petrolio”, preludio spesso a delle vere e proprie nefandezze e pensando di avere una politica culturale solo perché nell’arco temporale di un anno si riesce a inserire, qua e là in giro per l’Italia, una manciata di grandi eventi. Una vera e propria ossessione questa.

Non c’è niente di nuovo, almeno scorrendo la locandina e le parole di Agnelli, in questa proposta. Ma arriva – domani il debutto all’interno del Traffic di Torino – al termine di un’estate italiana desertificata di festival. Una luce – ascoltando le parole di Agnelli – sembra comunque essersi accesa. Quando lui stesso fa riferimento alle esperienze che sono nate e si sono sviluppate nei teatri dismessi e a rischio privatizzazione o demolizione  sparsi in Italia (dall’esempio del Teatro Valle a Roma a quello più vicino ad Agnelli, il Coppola di Catania), occupati da artisti e semplici cittadini per non far perdere la “funzione culturale” di quei luoghi, così come sancisce la nostra Costituzione.  Ecco, puntare la luce (almeno a parole) su questa realtà vitale e frutto di una mobilitazione è sicuramente un buon punto di partenza per cercare di aprire un dibattito sulla necessità di una politica culturale vera in Italia che tenga conto della realtà. Sarà forse un esercizio di stile – magari anche sterile – e potrà provocare qualche eruzione cutanea accompagnata dal solito “Il dibattito no”, ma vale la pena provarci. Perché altrimenti, a prescindere dalla libertà creativa che più o meno si sprigionerà dal palco, sarà un festival. La soluzione più istantanea – come dimostrano tra l’altro le esperienze precedenti di Manuel Agnelli – e non sempre “rappresentativa” di una scena o della scena di fronte alla domanda: “Qual è lo stato dell’arte in Italia?”. Un festival, a prescindere dal godimento più o meno completo delle perfomance in programma, è un po’ sempre un riassunto. E questo riassunto, almeno negli ultimi anni (opinione personalissima), si è cristallizzato almeno da tre lustri, guardando troppo indietro con legittima nostalgia e poco in avanti. Allora l’Italia – del Consorzio Produttori Indipendenti e della frenetica attività di etichette come la Mescal – dimostrò che poteva anche non aver quella deferenza ossequiosa nei confronti degli Stati Uniti. Perché, oltre alla pubblicazione costante di dischi (tra cui anche quelli degli Afterhours) collocabili sul mercato internazionale, si erano formate delle professionalità con competenze assai qualificate. Non si può vivere solo di ricordi però e farsi travolgere dalla nostalgia. La realtà attuale – grazie anche alla tecnologia – è diversa, complessa e molteplice. E ci sono variabili che la percuotono senza andare a tempo, gli effetti di una crisi mai così lunga e mai così invadente anche nel privato. Questo festival può diventare un’occasione per ripartire solo se tiene fede al suo nome e non all’etichetta di genere che, inevitabilmente, gli è stata appiccicata addosso. Altrimenti, sarà davvero solo un festival. Bello e interessante. Ma sempre un festival. Non c’è bisogno di grandi messaggi certo, ma di luci che non si accendano più a intermittenza.

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