VEDI I VIDEO “Una sera come tante” , Giovanni Giudici legge “Casa estrema” e parla di sé , “Tanto giovane” cantata , “Andar di fuori il latte è un malestro” letta dal poeta , “Descrizione della mia morte”

Firenze, 26 giugno 2019 – Ricordando Giovanni Giudici, nato a Le Grazie, Portovenere, in provincia di La Spezia, il 26 giugno 1924.

Torno ad evocarlo, Giovanni Giudici, così come lo incontrai negli anni Settanta (non solo per via cartacea, ma, prima che in carne e ossa, per via rigorosamente cartacea), quando le raccolte d’annata segnalabili tra i poeti pressoché suoi coetanei erano – nel 1977 e tutte edite nella stessa collana mondadoriana dello «Specchio» che lo pubblicava – Marzo e le sue idi di Bartolo CattafiTransito con catene di Maria Luisa Spaziani e Sinopie del ticinese Giorgio Orelli.

L’occasione era fornita da Il male dei creditori, un libro che già definivo a quel tempo, senza incertezze, «notevolissimo»: un libro «totalmente contemporaneo, a suo modo esemplare come pochi altri di un’idea stessa di poesia italiana ancora praticabile». La poesia era già allora, come correntemente si sosteneva, in crisi, ma Giudici dimostrava di attraversare quella crisi, rifacendosi all’esempio primonovecentesco – richiamato peraltro da uno dei suoi primi interpreti, Franco Fortini – di Gozzano e dei crepuscolari, per farne subito, però, non reperti archeologi in chiave culturalistica, ma elementi di confronto, tappe di un necessario cammino intuito comune: umanamente comune.

Sta di fatto che con il suo quarto libro Giudici già mi appariva rivendicare a proprio merito la saldatura perfetta tra i modi dell’antieroico intimismo di sapore crepuscolare e quelli di una socialità allo scoperto, assestando così, ex novo, con originalità e prima ancora con assoluta necessità, i dissestati equilibri della sua evoluzione lirica. Con Il male dei creditori il poeta giungeva alla riconciliazione (anche stilistica) con la realtà che avvertiva tanto oppressiva e repressiva solo in rari e miracolosi momenti, mentre per il resto era ed espressivamente si dimostrava in rapporto di disperata resistenza.

Riappropriandosi di un timbro montaliano per suo conto storiograficamente proveniente dalle zone di un crepuscolarismo superato, Giudici poteva già difendersi, interrogando senza infingimenti i fluttuanti decori del nostro vivere quotidiano:

Quale mai colpa è la mancanza di gloria nell’insetto?
E perché tenere a vile il sorriso dell’astante
Che appena scantonando si salva con la sua roba?
(Animale antico).

E ancora, in riferimento a modelli familiari, genitoriali, crepuscolarmente riconducibili ad ambiti psicologicamente circoscritti e protettivi:

Doctor Subtilis… Anche lui scriveva il nulla
Anche lui rinviava tutta la vita a domani.
Con quella prestidigitazione di segni
Anche lui remigava nel lieve vuoto impeccabile.
Fin quando le sue righe cominciarono a incurvarsi
Verso il finire dei margini a farsi incerti
La forbita sintassi a guastarsi.

Fino al delirio d’inchiostro e a indirizzi sbagliati.
(La sua scrittura).

Marco Marchi

Una sera come tante

Una sera come tante, e nuovamente
noi qui, chissà per quanto ancora, al nostro
settimo piano, dopo i soliti urli
i bambini si sono addormentati,
e dorme anche il cucciolo i cui escrementi
un’altra volta nello studio abbiamo trovati.
Lo batti col giornale, i suoi guaiti commenti.

Una sera come tante, e i miei proponimenti
intatti, in apparenza, come anni
or sono, anzi più chiari, più concreti:
scrivere versi cristiani in cui si mostri
che mi distrusse ragazzo l’educazione dei preti;
due ore almeno ogni giorno per me;
basta con la bontà, qualche volta mentire.

Una sera come tante (quante ne resta a morire
di sere come questa?) e non tentato da nulla,
dico dal sonno, dalla voglia di bere,
o dall’angoscia futile che mi prendeva alle spalle,
né dalle mie impiegatizie frustrazioni:
mi ridomando, vorrei sapere,
se un giorno sarò meno stanco, se illusioni

siano le antiche speranze della salvezza;
o se nel mio corpo vile io soffra naturalmente
la sorte di ogni altro, non volgare
letteratura ma vita che si piega nel suo vertice,
senza né più virtù né giovinezza.
Potremmo avere domani una vita più semplice?
Ha un fine il nostro subire il presente?

Ma che si viva o si muoia è indifferente,
se private persone senza storia
siamo, lettori di giornali, spettatori
televisivi, utenti di servizi:
dovremmo essere in molti, sbagliare in molti,
in compagnia di molti sommare i nostri vizi,
non questa grigia innocenza che inermi ci tiene

qui, dove il male è facile e inarrivabile il bene.
È nostalgia di un futuro che mi estenua,
ma poi d’un sorriso si appaga o di un come-se-fosse!
Da quanti anni non vedo un fiume in piena?
Da quanto in questa viltà ci assicura
la nostra disciplina senza percosse?
Da quanto ha nome bontà la paura?

Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura
che dice: domani, domani… pur sapendo
che il nostro domani era già ieri da sempre.
La verità chiedeva assai più semplici tempre.
Ride il tranquillo despota che lo sa:
mi numera fra i suoi lungo la strada che scendo.
C’è più onore in tradire che in essere fedeli a metà.

Giovanni Giudici

(da La vita in versi, 1965)

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