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Firenze, 7 agosto 2024 – Anche Antonia Pozzi, al pari di Sylvia Plath, Anne Sexton e Amelia Rosselli, si suicidò: giovanissima, a ventisei anni, nella sua Milano, il 3 dicembre 1938.
Il suicidio dell’autrice di Parole è così rievocato in un articolo di Francesco Errani: “Quando Antonia Pozzi arrivò, la mattina del 2 dicembre 1938, la neve aveva rivestito di bianco la campagna intorno all’abbazia di Chiaravalle. Lasciò la bicicletta e si sedette a pochi metri da una roggia, come in Lombardia chiamano i piccoli corsi d’ acqua che traversano i campi. Aveva con sé un barattolo di pasticche. Le ingoiò con una sola sorsata d’ acqua e poi si sdraiò sulla neve, dove la trovarono ancora viva. Morì poche ore dopo. ‘Polmonite’, fece sapere il padre, un avvocato milanese possessivo ed ambizioso, sposato ad una nobile discendente di Tommaso Grossi, sacerdote di un rito mondano che bandiva il suicidio e che l’ indusse a frugare nei cassetti dove la figlia custodiva le sue carte, a cancellare, tagliare, anche bruciare e poi emendare e ricopiare col proposito di consegnare al secolo un’Antonia Pozzi come voleva che fosse, una poetessa tragica, che cantava la natura e la morte, ma mondata di quelle che riteneva impurità del vivere“.
Ha scritto di Antonia Pozzi, conosciuta negli anni dell’università, Maria Corti: “Il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull’orlo degli abissi. Era un’ipersensibile, dalla dolce angoscia creativa, ma insieme una donna dal carattere forte e con una bella intelligenza filosofica; fu forse preda innocente di una paranoica censura paterna su vita e poesie. Senza dubbio fu in crisi con il chiuso ambiente religioso familiare. La terra lombarda amatissima, la natura di piante e fiumi la consolava certo più dei suoi simili“.
E poi c’era, ad assistere e a ripagare con i suoi doni la poetessa, aggiungiamo noi, la poesia: una “voce profonda” con la quale e attraverso la quale esprimersi, alla quale e nella quale, secondo un suo titolo, “confidare”. E’ grazie alla poesia che oggi ricordiamo Antonia Pozzi.
Marco Marchi
Largo
O lasciate lasciate che io sia
una cosa di nessuno
per queste vecchie strade
in cui la sera affonda –
O lasciate lasciate ch’io mi perda
ombra nell’ombra –
gli occhi
due coppe alzate
verso l’ultima luce –
E non chiedetemi – non chiedetemi
quello che voglio
e quello che sono
se per me nella folla è il vuoto
e nel vuoto l’arcana folla
dei miei fantasmi –
e non cercate – non cercate
quello ch’io cerco
se l’estremo pallore del cielo
m’illumina la porta di una chiesa
e mi sospinge a entrare –
Non domandatemi se prego
e chi prego
e perché prego –
Io entro soltanto
per avere un po’ di tregua
e una panca e il silenzio
in cui parlino le cose sorelle –
Poi ch’io sono una cosa –
una cosa di nessuno
che va per le vecchie vie del suo mondo –
gli occhi
due coppe alzate
verso l’ultima luce –
Antonia Pozzi
(da Parole)
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