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Firenze, 2 gennaio 2022 – Ricordando che ieri l’altro ricorreva l’anniversario della nascita di Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna, 31 dicembre 1855).
Sul protettivo «nido» familiare e il tormentato, ambiguo e sostanzialmente ambivalente rapporto intercorso tra Giovanni Pascoli e le sorelle Maria e Ida all’indomani della morte del padre, con molta acutezza Mario Luzi ha scritto: «Di fatto si determina nei tre che la disgrazia ha diviso e ricongiunto una sorta di infatuazione e mistificazione infantili, alle quali Ida è connivente solo in parte. Per il Pascoli si tratta in ogni caso di una vera e propria regressione al mondo degli affetti e dei sensi, anteriore alla responsabilità; al mondo da cui era stato sbalzato violentemente e troppo presto.
Possiamo notare due movimenti concorrenti: uno, quasi paterno, che gli suggerisce di ricostruire con fatica e pietà il nido edificato dai genitori; di investirsi della parte del padre, di imitarlo. Un altro, di ben diversa natura, gli suggerisce invece di chiudersi là dentro con le piccole sorelle che meglio gli garantiscono il regresso all’infanzia, escludendo di fatto, talvolta con durezza, gli altri fratelli.
In pratica il Pascoli difende il nido con sacrificio, ma anche lo oppone con voluttà a tutto il resto: non è solo il suo ricovero, ma anche la sua misura del mondo. Tutto ciò che tende a strapparlo di lì in qualche misura lo ferisce; altre dimensioni della realtà non gli riescono, positivamente, accettabili. Per renderlo più sicuro e profondo lo sposta dalla città, lo colloca tra i monti della Garfagnana dove può, oltre tutto, mimetizzarsi con la natura» (M. Luzi, Giovanni Pascoli).
Ma è da queste ambiguità e da queste ambivalenze riassunte nell’immagine-simbolo del «nido» (un’immagine, appunto, di afferenza anch’essa eminentemente naturale, derivata da un mondo squisitamente animale, anteriore ad ogni umana qualificazione e responsabilità adulta di tipo culturale) che nasce la grande poesia di Pascoli.
Un testo notissimo come La cavalla storna, ma anche l’odierno, meno noto ma bellissimo Il bolide (l’uno e l’altro nei Canti di Castelvecchio) ci immettono esemplarmente in questi territori «regressivi»: territori soggetti a mutilazioni e menomazioni, in apparenza dimissionari, umili e come dicevamo sostanzialmente ambigui, ma oltremodo densi di implicazioni, impegnativi. Pascoli si affida alla propria memoria costellata di sventure e cose rimaste inesplicate, e nel far questo redige un’attendibile, veridica storia del mondo. Una storia che continua, intimamente palpitante.
Marco Marchi
Il bolide
Tutto annerò. Brillava, in alto in alto,
il cielo azzurro. In via con me non c’eri,
in lontananza, se non tu, Rio Salto.
Io non t’udiva: udivo i cantonieri
tuoi, le rane, gridar rauche l’arrivo
d’acqua, sempre acqua, a maceri e poderi.
Ricordavo. A’ miei venti anni, mal vivo,
pensai tramata anche per me la morte
nel sangue. E, solo, a notte alta, venivo
per questa via, dove tra l’ombre smorte
era il nemico, forse. Io lento lento
passava, e il cuore dentro battea forte.
Ma colui non vedrebbe il mio spavento,
sebben tremassi all’improvviso svolo
d’una lucciola, a un sibilo di vento:
lento lento passavo: e il cuore a volo
andava avanti. E che dunque? Uno schianto;
e su la strada rantolerei, solo…
no, non solo! Lì presso è il camposanto,
con la sua fioca lampada di vita.
Accorrerebbe la mia madre in pianto.
Mi sfiorerebbe appena con le dita:
le sue lagrime, come una rugiada
nell’ombra, sentirei su la ferita.
Verranno gli altri, e me di su la strada
porteranno con loro esili gridi
a medicare nella lor contrada,
così soave! dove tu sorridi
eternamente sopra il tuo giaciglio
fatto di muschi e d’erbe, come i nidi!
Mentre pensavo, e già sentia, sul ciglio
del fosso, nella siepe, oltre un filare
di viti, dietro il grande olmo, un bisbiglio
truce, un lampo, uno scoppio… ecco scoppiare
e brillare, cadere esser caduto,
dall’infinito tremolìo stellare,
un globo d’oro, che si tuffò muto
nelle campagne, come in nebbie vane,
vano: ed illuminò nel suo minuto
siepi, solchi, capanne, e le fiumane
erranti al buio, e gruppi di foreste,
e bianchi ammassi di città lontane.
Gridai, rapito sopra me: Vedeste?
Ma non v’era che il cielo alto e sereno.
Non ombra d’uomo, non rumor di péste.
Cielo, e non altro: il cupo cielo, pieno
di grandi stelle: il cielo, in cui sommerso
mi parve quanto mi parea terreno.
E la Terra sentii nell’Universo.
Sentii, fremendo, ch’è del cielo anch’ella.
E mi vidi quaggiù piccolo e sperso
errare, tra le stelle, in una stella.
Giovanni Pascoli
(dai Canti di Castelvecchio)
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