VEDI I VIDEO La vita e le opere: “Tozzi, la scrittura crudele” , Da “Bestie” , Scene da “Con gli occhi chiusi” di Francesca Archibugi (1994) , Passeggiata tozziana , Un testo scenico: “Nel paese di mio padre”
Firenze, 22 marzo 2018 – Ricordando che ieri ricorreva l’anniversario della morte di Federigo Tozzi (Roma, 21 marzo 1920).
Nelle prose di “Bestie” Tozzi torna di continuo a proiettare la sua anima su quanto lo circonda, tenta per via di una parola che nomina la fuoriuscita dai cunicoli oscuri in cui essa, dubitando persino di esistere, si dibatte, alla ricerca di “parentele”. E fin dall’inizio del libro, in sintonia con la natura e in corrispondenza delle sue apparizioni, Tozzi invoca la libertà, la fuoriuscita dalla solitudine, la dolcezza, un anelato ricongiungimento benevolo. Gli sguardi di un’anima già definita a quell’altezza “piena di occhi chiusi” s’indirizzano preferenzialmente verso normalizzati scenari naturali, soprattutto campestri, e ognuna delle bestie chiamate a raccolta sarà, secondo l’associazionismo di William James, il segno materializzato di un proprio disagio e, insieme, di una propria conoscenza: una sorta di dislocazione rintracciata e a suo modo rivelante di quel che di non saputo l’io porta con sé, del suo inquietante impasto (raffigurato in “Barche capovolte” per via biblico-animale ma di sostanza freudiana) di “buca di scorpioni” e “nido di usignoli”, di “bisbigli” e “code paurose”.
All’insegna di modi di essere, il dentro e il fuori annullano demarcazioni di territorio: tutto sarà estasi o incubo, secondo una comportamentistica che alterna il negativo e il positivo come esemplarmente accade fin dall’inizio delle prose di “Fonti”, dove alla fonte dove si sarebbe seriamente tentati di uccidersi, stante la propria tragica e solitaria scontentezza, fa immediatamente riscontro una magica fonte “quasi coperta dalle rose”, luccicante, odorosa e tepida, che incoraggia nel suo concentrato e sinestetico trionfo di vita che tutti sensi investe ad una oppositiva offerta all’insegna della comunicazione e dell’amore.
Ed è proprio così che il “pozzo dell’anima” psicologicamente indagato negli aforismi di “Barche capovolte” riprende in “Bestie” a parlare, a riportare alla superficie parte della sua acqua, a scandire preliminarmente nell’ambito dei ricordi una natura coincidente con il “sogno immenso” dell’anima e la dialettizzazione al negativo di quella concordanza irremeabile: “Mi ricorderò sempre dei bei prati verdi che cominciavano dalla mia anima e da’ miei piedi, e finivano quasi all’orizzonte. […] Io avevo in mente di trovare alberi, ed alberi erano da per tutto. Ma quel cielo, tutto turchino uguale, che mi pareva fossesi chiuso soltanto pochi momenti innanzi che io arrivassi, mi metteva un rimpianto di sogni”. Il naturalistico “cielo di Siena” si fa “cattivo”, veicolando memorie dolorose di oppressione, di morte, che schiacciano l’anima: quella stessa anima che sulla scia di un esistenzialismo presto incontrato riconoscerà altre condanne e inaugurerà, nella riconosciuta fratellanza, forme di pietas: “In campagna mi fermavo sotto un albero che aveva i rami troppo schiacciati, e gli offrivo di sorreggerli con la mia anima”.
Ma anche la cultura, riverberandosi sulla natura e sulle sue insindacabili leggi che fanno un tutt’uno con il suo compatto e spavaldo esibirsi, partecipa del processo. Se l’“esaltazione mistica” del giovane Tozzi, combinandosi con suggestioni letterarie apprese alla Biblioteca Comunale di Siena, è presto in grado di rianimare tra le mura di San Francesco “l’azzurro del soffitto di una cappella”, anche il Medioevo ricreato trascorre rapidamente da un mondo “sempre più dolce e religioso” ad un agone di combattimenti cruenti, a loro volta interiorizzati, destinati a durare secoli. L’anima fruttifica “come un miracolo fatto sopra una vigna” (pure la Bibbia e Santa Caterina antologizzata funzionano), ed è il momento dell’orgoglio che l’apparizione di un topo presto interrompe e crudelmente ridimensiona.
Allo stesso modo, quasi didatticamente, si profilano in Tozzi immagini aeree, lontananze tranquille, spazi immensi, ma anche limiti, chiusure, disappartenenze abitative, cadute. Il cielo e l’anima vorrebbero identificarsi, ma la ribellione continuata di Tozzi ai vincoli pesanti della condizione umana può sostanziarsi ormai solo di una miriade di parallelismi comportamentistici inesplicabili ma di per sé rassicuranti. La scelta è pressoché obbligata: il vivente senz’anima, quel vivente, come ha scritto Giorgio Manganelli, “che l’uomo ha deciso di poter uccidere, straziare, degradare, anneghittire, insultare” e che a ben vedere può offrire a sua volta consolazione e riparo, evitando false speranze, giudizi e disfatte.
La natura, la cultura… In realtà, come si legge in Emerson, il filosofo di “Nature” conosciuto da Federigo Tozzi: “Appena degeneriamo, diventiamo stranieri alla natura in quanto ci alieniamo da Dio”; mentre, ancora per via di cultura, in un’opera del pragmatista americano William James, saldando di nuovo ricerca scientifica e ricerca religiosa, Tozzi poteva recuperare affermazioni di questo tipo: “Certo, io pensavo, io sono abbandonato da Dio […] ed ero dolente che Dio mi avesse creato Uomo. Gli animali, io benedicevo la loro condizione, poiché essi non posseggono una natura peccatrice, essi non sono invisi a Dio nella sua ira, non sono predestinati alle fiamme infernali dopo la morte. […] io benedicevo ora la condizione del cane e del rospo”. Il lettore di Tozzi ripensa, alla luce di questa citazione di un testo jamesiano letto da Tozzi, “Le varie forme della coscienza religiosa”, al cane Toppa di “Con gli occhi chiusi” e all’indimenticabile strage dei rospi di una celebre prosa di “Bestie” che oggi vi proponiamo.
D’altronde, se l’autore del “Trionfo della morte”, quell’inevitabile Gabriele d’Annunzio molto amato e molto odiato da Tozzi, aveva a suo tempo aspirato scrivendo – parole di Tozzi stesso in versione saggistica – a “un ideal libro di prosa moderno” che “armonizzasse tutte le varietà del conoscimento e tutte le varietà del mistero”, che “sembrasse non imitare ma continuare la Natura” e “libero dai vincoli della favola, portasse alfine in sé creata con tutti i mezzi dell’arte letteraria la particolar vita – sensuale sentimentale intellettuale – di un essere umano collocato nel centro della vita universa”, secondo ben altre prospettive, in altre immagini dell’uomo e prima ancora in altre applicazioni dell’esercizio letterario Tozzi avrebbe modernamente individuato il suo unico compito da svolgere: un confronto naturale fattosi esistenziale nel segno del tragico, potentemente necessitato da disagio e da drammatica impossibilità di visioni del mondo.
Nel segno del tragico, appunto, ma fino a questa sicura speranza nutrita, confessata a se stesso fin da ragazzo e non rimasta certo disattesa, se consideriamo che grande scrittore Federigo Tozzi è stato: “come c’è questo pampino, ci sarà il mio libro” (“Bestie”).
Marco Marchi
da “Bestie”
Il Migliorini è un uomo che lavora la terra a un tanto il giorno; cambia padrone quasi tutte le stagioni, ed è bravo a potare le viti.
Egli comprò, da un suo amico rigattiere, la Gerusalemme e l’Orlando: dieci volumi di quella carta che pare cencio, e con una piccola figura ogni canto. Quando è l’ora di riposo cava dalla sporta, lasciata a un ramo di qualche pianta, un volume, e lo legge agli altri.
L’anno che lo conobbi, se pioveva entrava dentro una porta vicina al mio podere, dove ci potevano stare a pena in dieci, seduti sopra pezzi di legno secco e avanzi di potature.
L’acqua sgocciolava da per tutto e colando dal tronco di un pesco, nato quasi a traverso l’imbocco, faceva una pozzanghera proprio nel bel mezzo. Ma il Migliorini, con la zappa, scavando un fossetto e alzando un argine con la terra smossa, aveva provveduto in modo che le scarpe non se le bagnavano più. Poi, acceso un poco di fuoco, arrostiva le fette del pane, infilandole ad una frusta che egli girava, tenendo l’Orlando aperto sopra una coscia e stando in ginocchio con l’altra gamba.
Io mi ci sarei indolenzito subito.
Ad ogni ottava, faceva il commento a modo suo, e poi:
- State a sentire com’è bella! Non pare vera?
E batteva le lunghe dita terrose sul libro. Sapeva dire in poche parole la storia di ogni personaggio; e rispondeva a tutte le domande che gli facevano i compagni. Aveva gli orecchi bucati; ma aspettava che morisse un suo zio che gli avrebbe lasciato due anelli d’ottone. Portava i capelli lunghi da dietro, come una ragazza a cui stanno per ricrescere dopo che le sono stati tagliati. Teneva il cappello sopra gli occhi, ed era molto alto. Quando tornava a casa, infilava la sporta al braccio fino al gomito: d’inverno aveva un pastrano turchino; e al cappello, in vece del solito nastro, una trina nera da donna.
Una volta, veduto un rospo, insegnò come si uccidono: si prese di bocca, con un dito, la cicca che biascicava e, messala in cima al coltello, gliela cacciò dentro la gola. Il rospo cominciò a tremare, doventando quasi giallo; apriva e chiudeva gli occhi, che parevano più piccoli e più lucidi. Quando venne il padrone, perché l’ora del desinare era passata, con un calcio tirarono in fondo alla balza la bestia già morta, dove facevano le fosse per le viti. E quando, l’anno passato, ripulirono un gran frontone putrido e verde che pareva una palude, di fianco a un bosco di querci e di castagni, pieno di macigni e di radici nere, cavavano fuori dall’acqua i rospi con una rete fatta con il filo di ferro, per metterli dentro un secchio. Quando il secchio era colmo, aprivano una buca con una vanga; e ve li zeppavano dentro. Poi li ricoprivano di terra; e sopra, dopo averci pigiato con i piedi, lasciavano uno di quei macigni più pesi.
Io andavo da una pianta all’altra senza dir niente, perché sarebbe stato impossibile farli smettere; con il cuore doventato mencio. Ma come mi s’empì la bocca di saliva che pareva bava, quando vidi una rospa che pareva un grande involto! E poi che ella mi guardava con quei suoi occhi di ragazza brutta, forse più acuti dei miei, mi sentii venir male.
Ma due anni fa, dopo il vespro, per tornare a casa, io dovevo camminare lungo un viottolo fatto sul margine di un torrente, scansando a ogni passo i salci e i pioppi. La mia scontentezza cresceva come le ombre; e niente c’era di peggiore della sera diaccia. Le nebbie salivano lungo il torrente, i salci sgocciolavano, con le gocciole che si fermavano un poco in punta alle foglie all’ingiù, i pioppi erano umidi. I poggi s’oscuravano, e le terre lavorate doventavano più nere. A qualche podere vedevo una finestra con il lume. Le chiese avevano già suonato, e i loro echi m’erano parsi di un azzurro così cupo e taciturno come erano taciturni gli usci rossi delle capanne chiuse e le aie deserte.
Siccome la strada era lunga, mi si faceva buio presto; e, se nessuno s’accompagnava con me, camminavo più piano quantunque mi crescesse la fretta d’arrivare. Che tristezza desolante e silenziosa! Qualche volta un rovo, i cui tralci erano stesi in terra, mi si attaccava ai calzoni: prima di distrigarmi, mi approfittavo d’esser stato fermato per sfogare la mia scontentezza guardando l’ombra dietro a me. Ma tutto il torrente era pieno di rospi da dove ero venuto a dove andavo, anche così lontano che gli ultimi a pena s’udivano; e la loro voce che mi pareva tranquilla, ed è invece tremula, mi consolava. Tutti gli altri che avevo veduto morti o agonizzanti ricordavo allora! Quello a cui con una frusta di salcio avevano fatto un nodo scorsoio e l’avevano lasciato lì ciondoloni; quello infilato, dal ventre, a una canna aguzzata: la canna riesciva dalla bocca, e il sangue colava più grosso e scuro; quello a cui avevano schiacciato con i sassi tutte e quattro le zampe; quello accecato con i tizzi della brace; quello sbudellato con un colpo di falcino; quello schiacciato dalle ruote del carro, a posta; quello lanciato in aria dando un colpo sopra una tavoletta messa in bilico; quello pestato dai due fidanzati; questi sono i rospi che ho visto morire, silenziosi, con quei loro occhi che di notte luccicano.
Federigo Tozzi
(da “Bestie”, 1917)
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