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Firenze, 11 febbraio 2018 – Ricordando che oggi ricorre l’anniversario della morte di Sylvia Plath (Londra, 11 febbraio 1963).

Il commiato del fantasma

Entra nella gelida terra di nessuno delle
cinque circa del mattino, vuoto del non-colore
dove al risveglio la testa sfrega via la fangosa partita
di sulfurei paesaggi onirici e oscuri rebus lunari
che sognati parevano tanto significanti,

si appresta a fronteggiare il confezionato universo
di sedie, scrivanie, lenzuola gualcite dal sonno.
E questo il regno dell’apparizione che svanisce,
fantasma oracolare che su gambe a spillo digrada
a un nodo di biancheria, il classico mucchietto di lenzuola.

Alzato su, come una mano, in segno di addio.
A questa congiuntura fra due mondi e due modi
d tempo incompatibili, la materia grezza
di nostri più prosaici pensieri assume un’aureola
di sublime rivelazione. E così le dipartite.

Sedia e scrittoio sono geroglifici
di qualche arcano discorso che il desto cervello ignora:
così i sagomati lenzuoli, prima di assottigliarsi nel nulla,
parlano con i segni di un perduto altromondo,
mondo che ci è bastato ridestarci per perderlo.

Traendo i suoi stracci-segnale soltanto sulla più esterna
frangia della visione mondana, questo fantasma va,
alza la mano, ciao, ciao, non giù dentro
il buzzo roccioso della terra, ma verso
una regione dove la nostra greve atmosfera

diminuisce e dio sa cosa c’è.
Un punto esclamativo contrassegna quel cielo
in squillante arancione come un’astrale carota.
Il suo circolare periodo, sfasato e acerbo,
sospende accanto ad esso il primo punto, iniziale

punto dell’Eden, vicino alla curva della nuova luna.
Và, fantasma di nostra madre e nostro padre, fantasma di noi,
e fantasma dei figli dei nostri sogni, in quelle lenzuola
significanti la nostra origine e fine,
al paese di cuccagna di ruote colorate

e primordiali alfabeti e mucche che mugghiano
e mugghiano zompando sopra lune, nuove come
quello spicchio tagliente verso il quale ora viaggi.
Salve e addio. Ciao, carissimo. O custode
del Graal profano, del teschio sognante.

The Ghost’s Leavetaking

Enter the chilly no-man’s land of precisely
Five o’clock in the morning, the no-color void
Where the waking head rubbishes out the draggled lot
Of sulfurous dreamscapes and obscure lunar conundrums
Which seemed, when dreamed, to mean so profoundly much,

Gets ready to face the ready-made creation
Of chairs and bureaus and sleep-twisted sheets.
This is the kingdom of the fading apparition,
The oracular ghost who dwindles on pin-legs
To a knot of laundry, with a classic bunch of sheets

Upraised, as a hand, emblematic of farewell.
At this joint between two worlds and two entirely
Incompatible modes of time, the raw material
Of our meat-and-potato thoughts assumes the nimbus
Of ambrosial revelation. And so departs.

But as chair and bureau are the hieroglyphs
Of some godly utterance wakened heads ignore:
So these posed sheets, before they thin to nothing,
Speak in sign language of a lost otherworld,
A world we lose by merely waking up into sanity.

Trailing its telltale tatters only at the outermost
Fringe of mundane vision, but this ghost goes
Hand aloft, goodbye, goodbye, not down
Into the rocky gizzard of the earth,
But toward the region where our thick atmosphere

Diminishes, and God knows what is there.
A point of exclamation marks that sky
In ringing orange like a stellar carrot.
Its round period, displaced and green,
Suspends beside it the first point, the starting

Point of Eden, next the new moon’s curve.
Go, ghost of our mother and father, ghost of us,
And ghost of our dreams’ children, in those sheets
Which signify our origin and end,
To the cloud-cuckoo land of color wheels

And pristine alphabets and cows that moo
And moo as they jump over moons as new
As that crisp cusp towards which you voyage now.
Hail and farewell. Hello, goodbye. O keeper
Of the profane grail, the dreaming skull.

Sylvia Plath

(1958)