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Firenze, 11 aprile 2024 – Ricordando che l’11 aprile 1987 moriva a Torino Primo Levi.
La testimonianza poetica di Primo Levi appare definibile con una sorta di paradosso peliminare. Una poesia illuministica, quella di Levi, eticamente e civilmente sostenuta, del tutto degna di un’eredità torinese-gobettiana, per cui la poesia classica, la più antica, quella greca e latina per intendersi, quella più a monte, per così dire, di intervenute complicazioni storiografico-letterarie legate alla modernità, si configura sostanzialmente come il suo sapore più apprezzabile e prima ancora come la sua più naturale pietra di paragone, la sua risorsa più affidabile, il suo nutrimento certo cui guardare.
La poesia di Levi si pone infatti, con naturalezza appunto, sulla scia di quella che un altro scrittore e poeta contemporaneo a Primo Levi, Sergio Solmi, avrebbe definito la «poesia senza tempo», pur non potendo sottrarla, nel trattamento dei temi eterni del bene e del male, dell’amore e della solitudine, dell’innocenza e della corruzione che la connotano, ad una riconoscibile storicità di riferimento, linguistica e culturale, che ne sottolinea caso mai, articolando e internamente coniugando, la perdurante validità tematica e di messaggio.
La poesia subentra sì, in Levi, secondo quanto suggerito da un titolo suggestivo e azzeccato, citazionale (dalla «Ballata del vecchio marinaio» di Coleridge con i versi del prelievo poi citati più ampiamente come esergo in «I sommersi e i salvati») «Ad ora incerta», ma non secondo la condizione rilkiana sottesa a una dichiarazione come quella ricavabile dal poeta delle «Elegie duinesi»: «Adesso la mia mano scriverà qualcosa che io non sono in grado di capire».
«Ad ora incerta», in altri termini, ma dovendo rinunciare a credere che è proprio l’incertezza una plausibile marca di riconoscimento dell’operare in versi, un’alternativa forma di certezza «altra» nell’affidarsi ad essa, alle sue obliquità e alle sua ambiguità, ai suoi probabilismi quanto più ignorati e inattesi, avventurosamente imprevisti e sfuggenti tanto più costitutivi, conclusivamente efficienti; e «ad ora incerta», ritrovando quasi per magia l’immagine della mano che scrive nel libro di Levi poeta: con «questa / Mano che scrive» testualmente, curiosamente corrispondente nella chiusura di «In principio».
Ma uno status ispirativo come quello certificato da Rilke, input alla scrittura e suo continuo sottofondo linguisticamente autorizzante e configurante – uno status culturalmente culminato nel Novecento, come si sa, nelle poetiche tra loro diversissime ma in questo convergenti del surrealismo e dell’informale –, in Levi non trova spazio. Si afferma invece la costituzione di un messaggio in qualche modo già enucleato e sufficientemente precostituito, e in questi termini da spartire socialmente, una volta formulato, in chiari termini di comunicazione: stagliandosi con contorni abbastanza netti fin dall’individuazione del tema poetabile, fin dal balenare più arretrato e primigenio di un’idea compositiva, di un’«occasione».
Anche i movimenti interni al processo elaborativo, quelle che sono state efficacemente definite in termini teorico-metaforici la «danza» e la «controdanza» mediante le quali, tra significato e significante, un testo poetico viene costituendosi, sembrano lasciarsi sovrintendere più da un proposito predefinito e indirizzante che non dall’apertura incondizionata all’eventualità, a ciò che la mano che scrive, per riprendere l’immagine della rilkiana, è del tutto inconsapevole, ignara di compiere, di realizzare.
È così che, rischiando di volta in volta una sorta di impiombatura dei materiali linguistico-immaginativi coinvolti, la configurazione testuale attinge in Levi a un repertorio variegato di temi e motivi, come pure di generi e di soluzioni stilistico-espressive di riferimento, all’insegna più della classicità che dello sperimentalismo. È come se la testimonianza poetica, pur mantenendo le sue prerogative e le sue modalità, non potesse prevedere al suo interno lo stesso codice genetico di quella parallela, articolata testimonianza narrativa e poi narrativo-saggistica, che un’esperienza sconcertantecome quella del Lager una volta per sempre ha reso ineludibile, impraticabile.
Un codice ormai drammaticamente stabilitosi, fatto proprio, fattosi inderogabile, valido nel trattamento di temi quanto mai disparati e tra loro diversicome possono essere un’amara riflessione sull’uomo, un accorato, universale e solenne monito sulle sorti del mondo, il ricordo teneramente commosso e squisitamente personale di una vicenda d’amore (alludo all’odierna poesia del giorno «Cercavo te nelle stelle») o una sorta di congedo familiare allargato (si veda un testo come «Agli amici», nelle «Altre poesie»).
Ogni momento poetabile non può insomma abdicare ad una stessa comportamentistica di base all’insegna di verità e moralità, nel sentirsi sempre al cospetto di quei «fratelli umani», presenti, immaginati nel futuro o al contrario sprofondati e travolti a ritroso, fino a quel «globo di fiamma, solitario, eterno, / Nostro padre comune e nostro carnefice» che esplodendo dette inizio alla vita («In principio»).
Marco Marchi
Cercavo te nelle stelle
Cercavo te nelle stelle
quando le interrogavo bambino.
Ho chiesto te alle montagne,
ma non mi diedero che poche volte
solitudine e breve pace.
Perché mancavi, nelle lunghe sere
meditai la bestemmia insensata
che il mondo era uno sbaglio di Dio,
io uno sbaglio del mondo.
E quando, davanti alla morte,
ho gridato di no da ogni fibra,
che non avevo ancora finito,
che troppo ancora dovevo fare,
era perché mi stavi davanti,
tu con me accanto, come oggi avviene,
un uomo una donna sotto il sole.
Sono tornato perché c’eri tu.
11 febbraio 1946
Primo Levi
(da Ad ora incerta; la poesia è dedicata a Lucia Morpurgo, che Levi sposerà l’anno dopo)
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