VEDI I VIDEO Dall’intervista a Ezra Pound di Pier Paolo Pasolini (1967) , Un estratto più ampio , “Patto” di Pound letto e commentato da Pasolini , Pound dice “With Usura” , Biografia: “Ezra Pound, il miglior fabbro”

Firenze, 8 giugno 2018 – È stato Enzo Siciliano, in quello che resta con tutta probabilità il suo libro più bello, la Vita di Pasolini, a testimoniare della iniziale indisponibilità di Pasolini a riconoscere la grandezza di Pound: diciamo pure della sua insofferenza sub specie ideologica ad affrontare il caso, ad accedervi veramente tramite quella costituitasi chiave preferenziale deliberatamente bilanciata tra ‘passione e ideologia’ e così, in tali termini, efficiente. Una chiave d’accesso soggetta tuttavia ai mutamenti del tempo, sensibile e storicizzabile anch’essa, instabilmente disposta a revisioni, calibrature e assestamenti, perfino in balia di stati d’animo.

L’episodio narrato da Siciliano è rivelatore: «Quando lo conobbi, ed era il 1956, avevo appena scritto un articolo su Le ceneri di Gramsci,  il singolo poemetto stampato nella serie di “Nuovi Argomenti“ di Alberto Carocci e Moravia. Lo incontrai nella sua casa romana di via Donna Olimpia. Mi chiese cosa leggessi, e gli parlai di Ezra Pound. Avevo letto e riletto i Pisan Cantos. Mi accanivo a tradurre qualche stralcio da Rock-Drill 85-95 de los cantares. Ebbe una reazione furiosa: Pound razzista, fascista eccetera». «Quel primo incontro fra noi – continua Siciliano – andò male. Quanto a me, militavo a sinistra: ma perché avrei dovuto negare che Pound fosse un grande poeta? In lui leggevo la tragedia della storia e dell’umanesimo vissuta dentro la barbarie della guerra dei nazisti e dei fascisti, Pound era il barbaro penitente, messo tangibilmente a nudo nella gabbia di Pisa, un Whitman redivivo che ha perso e lasciato sfumare in nero la panica bellezza del vivere».

E il problema fondamentale, l’interrogativo più inquietante e più bisognoso di risposte è proprio quello proposto dal giovane Siciliano: l’impossibilità di sacrificare sull’altare dell’ideologia l’autoevidente, luminosa e incontrovertibile grandezza di un autore. Siamo, si ricordi, a metà degli anni Cinquanta: gli anni in cui Pasolini è un autore letterario, meglio un poeta, un poeta che a varie forme della poesia si affida, ma non ancora un regista; un poeta impegnato, un poeta ideologizzato e già sufficientemente eretico e imbarazzante per i suoi, per la sua parte. Le ceneri di Gramsci non sono ancora diventati la raccolta edita da Garzanti (lo sarà l’anno dopo), ma il tema della coniugazione storia-coscienza-poesia costituisce già per Pasolini un banco di prova ineludibile e prima ancora, dopo La scoperta di Marx a suggello dell’Usignolo della Chiesa Cattolica, una base fondante.

C’era in Pasolini, detto in altro modo, nel Pasolini di quegli anni, la fiducia – sia pure drammaticamente contesta ed incrinata, dubitata e contraddetta – in una possibilità di incidere sull’evoluzione stessa di quella Storia, di poter offrire un determinato contributo di collaborazione a un vero progresso umano, ad un progetto migliorativo gramscianamente societario nel cui cerchio includere, come sempre in Pasolini potentemente e immancabilmente accade, le trame di una propria esistenza, di una propria visione in nero (come in Whitman, come in Pound, a ben vedere), infera e invece desiderosa di luci, di trasparenze e iridescenze del vivere, di riscatti umani e prima ancora di compartecipazioni, di vicende comuni (magari proprio quelle esaltanti concesse dalla poesia, sconfinate e inclusive, senza distinzioni tra la vita e la morte).

«Passarono gli anni – prosegue la rievocazione di Siciliano –. Pasolini incontrò Pound: ne risultò una testimonianza, mai più replicata, d’ottima televisione, un’intervista. Nelle rughe, nelle sclere secche del vecchio Pound c’era lo sconvolgimento di un Occidente che si vedeva travolto dalle proprie stesse ragioni di vita, nella propria sapienza conoscitiva. E Pasolini gli stava di fronte: le sue domande specchiavano una medesima disperazione, la stessa apocalisse –, lontani entrambi da qualsiasi connotazione di ideologia e politica, entrambi vivi come esorbitanti poeti fuori norma, disobbedienti a qualsiasi galateo di sanità letteraria, fiduciosi che la Storia comunque andasse per i propri strani sentieri avanti».

Ancora «geni a confronto», forse, come Cavalcanti e Pound, o come Dante e Pasolini, con uno stesso desiderio di conoscersi e di conoscere, di essere vicendevolmente illuminati e rassicurati dalla propria genialità ‘singolare’, inevitabilmente separata e distante e insieme universale e rappresentativa proprio all’insegna della ispirazione, della chiamata della poesia, di una stessa ansia a quella vocazione umanamente incaricata ed essenziale collegata. «Era una duplice verità che veniva a galla – lo dice benissimo Siciliano –, due solitudini che si specchiavano e si cercavano, più moderni di ogni moderno, fratelli che non sono più». E se è vero – come Siciliano conclude – che la poesia di Pasolini rischia l’incomprensibilità «fuori dalla percezione della Storia del Novecento», è altrettanto vero che Pasolini non meno di Pound, effettuando la loro disobbedienza artistica, protestando, affermando con coraggio davvero intrepido disappartenenze a molte cose del mondo nel nome e attraverso la poesia, in realtà obbediscono a richiami cogenti, a ragioni profonde. Sì, ardenti di libertà obbediscono, non possono che obbedire.

L’assenza nel poeta produce del resto presenza: una sorta di «mysterium mortis», per citare un titolo di Ladislaus Boros, una «kenosi del poeta» tutt’altro che paradossalmente confidente nella capacità di esprimere se stessi e il mondo morendo a se stessi e al mondo. Esiliato e morto al mondo Dante, esiliato e morto al mondo Cavalcanti (l’amatissimo Cavalcanti di Pound!), ma tutt’altro che scomparsi i frutti della loro applicazione, le cose viste dai loro strani, distanziati ed implacabili sguardi. Il poeta conosce bene le condizioni notturne del suo operare; ha confidenza con questi stati della creazione in apparenza funerei, sommersi e nostalgicamente attratti, e invece produttivi, vitali, generatori di illuminazioni, avanzamenti e aperture: tali anche nella «disperazione» in atto, nell’«apocalisse» vissuta da Pound e Pasolini in corpo e anima, nell’intimo della loro irrefutabile «esorbitanza» artistica, della loro solitudine poetica imposta.

Ha scritto Ezra Pound a proposito di Cavalcanti nella sua Introduzione a tradotti Sonetti e ballate, coniugando vita ed esercizio della poesia: «Dino Compagni, che lo conobbe, ci ha lasciato forse la più accurata descrizione dicendo che Guido era “cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario”, io almeno me lo raffiguro così. E così lo ritroviamo nelle sue poesie». Ha scritto a sua volta Pasolini, riferendosi a Pound: «Pound chiacchiera nel cosmo. Ciò che lo spinge lassù con le sue incantevoli ecolalie è un trauma che lo ha reso perfettamente inadattabile a questo mondo. L’ulteriore scelta del fascismo è stata per Pound un modo sia per mascherare la sua inadattabilità, sia un alibi per farsi credere presente. In che cosa è consistito questo trauma? Nella scoperta di un mondo contadino all’interno di un mondo industrializzato, di molti decenni in anticipo sull’Europa. Pound ha capito, con abnorme precocità, che il mondo contadino e il mondo industriale sono due realtà inconciliabili: l’esistenza dell’una vuol dire la morte (la scomparsa) dell’altra». E si dica soltanto se dietro a queste analisi e a questi giudizi messi a confronto non si intravedano in ambedue i casi le filigrane dell’autobiografia, le consonanze e gli inevitabili differimenti personalizzanti di ogni nostro pronunciamento. (continua)

Marco Marchi 

Patto

Stringo un patto con te, Walt Whitman.
Ti ho detestato ormai per troppo tempo.
Vengo a te come un figlio cresciuto
che ha avuto un padre dalla testa dura.
Ora sono abbastanza grande per fare amicizia.
Fosti tu ad abbattere il nuovo legno,
ora è tempo d’intagliarlo.
Abbiamo un solo fusto e una sola radice:
ristabiliamo commercio tra noi.

(traduzione di Alfredo Rizzardi)

A Pact

I make a pact with you, Walt Whitman –
I have detested you long enough.
I come to you as a grown child
Who has had a pig-headed father;
I am old enough now to make friends.
It was you that broke the new wood,
Now is a time for carving.
We have one sap and one root –
Let there be commerce between us.

Ezra Pound

(da Poesie scelte, Mondadori)