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Firenze, 4 luglio 2018 – Pasolini ha sempre voluto esprimere se stesso e con se stesso tutta la realtà. Nel fare questo ha partecipato al suo tempo in uno sforzo appassionato, culturalmente e poeticamente nutritissimo, di autonarrazione ed autointerpretazione che lo ha condotto lontano e lo ha progressivamente isolato in misura sempre maggiore. Ma in lui una consapevolezza risulta ben radicata: «I poeti appartengono sempre a un’altra civiltà» (Bestia da stile).

E’ così che Pier Paolo Pasolini, prima di tutto un poeta, consegna alla poesia e non ad altri mezzi  le sue spregiudicate registrazioni, i suoi spiazzanti proclami eretici e le sue profezie. «Mendico per i ghetti» del mondo, «cupo d’amore», il profeta in versi non può elemosinare alleanze e consenso, ma deve ancorarsi eroicamente alla sua natura di «animale senza nome», retoricamente «libero d’una libertà» che massacra, alla sua unica certezza infelice: «di essere il reietto di un raduno / di altri: tutti gli uomini, senza distinzione, / tutti i normali, di cui è questa vita» (La realtà, in Poesia in forma di rosa).

La poesia – «tentazione di santità», secondo l’efficacissimo ossimoro dissimulato nei versi della Realtà – sembra ancora permettere di sfuggire, dopo un libro come Le ceneri di Gramsci, ad ogni ipostatizzazione, dal momento che coglie e vocalizza l’antitesi; in lei «tutto può avere una soluzione», perché non pretende coerenza e affidabilità, strettoie soffocanti del sistema, ma sopporta l’unica misura di libertà e d’igiene intellettuale consentita all’artista, lo scandalo: «Nessun artista in nessun paese è libero. / Egli è una vivente contraddizione». L’intima sineciosi non consente in effetti a Pasolini lunghe epochè, trascinandolo piuttosto in continue, esplosive scelte di contraddizione, quasi che questo costituisse l’unico modo per mantenersi coerente con la sua intangibile, tenebrosa ed accecante distanza.

Nessuna patria gli appartiene, nessuna casa lo può più proteggere dal suo interiore rovello; non può smettere di sfuggire perché è poeta nell’intimo, è il «segnato», vittima e profeta. Come già dicono versi di Roma 1950: «Non tornerò / dalla periferia / di Roma o del Mondo, secondo il destino del Figliol Prodigo, / su cui voi sareste pronti a scommettere, / borghesi volgari e borghesi squisiti, / o meglio, tornerò, se così è umano, / ma andando sempre più lontano». I confini della denuncia, tra delusioni e nuove solidarietà alternative intraviste, si allargano, e un indirizzo di sperimentazione operativa per via poetica, al di là di ogni futura, esibita ed aggravata  impraticabilità della speranza, si riconferma.

Marco Marchi

La terra di lavoro

Ormai è vicina la terra di lavoro, 
qualche branco di bufale, qualche 
mucchio di case tra piante di pomidoro,

èdere e povere palanche. 
Ogni tanto un fiumicello, a pelo 
del terreno, appare tra le branche

degli olmi carichi di viti, nero 
come uno scolo. Dentro, nel treno 
che corre mezzo vuoto, il gelo

autunnale vela il triste legno, 
gli stracci bagnati: se fuori 
è il paradiso, qui dentro è il regno

dei morti, passati da dolore 
a dolore – senza averne sospetto.
Nelle panche, nei corridoi,

eccoli con il mento sul petto, 
con le spalle contro lo schienale, 
con la bocca sopra un pezzetto

di pane unto, masticando male, 
miseri e scuri come cani 
su un boccone rubato: e gli sale

se ne guardi gli occhi, le mani, 
sugli zigomi un pietoso rossore, 
in cui nemica gli si scopre l’anima.

Ma anche chi non mangia o le sue storie 
non dice al vicino attento, 
se lo guardi, ti guarda con il cuore

negli occhi, quasi, con spavento, 
a dirti che non ha fatto nulla 
di male, che è un innocente.

Una donnetta, di Fondi o Aversa, culla 
una creatura che dorme nel fondo 
d’una vita d’agnellino, e la trastulla

– se si risveglia dal suo sonno 
dicendo parole come il mondo nuove – 
con parole stanche come il mondo.

Questa, se la osservi, non si muove, 
come una bestia che finge d’esser morta; 
si stringe dentro le sue povere

vesti e, con gli occhi nel vuoto, ascolta 
la voce che a ogni istante le ricorda 
la sua povertà come una colpa.

Poi, riprendendo a cullare, cieca, sorda, 
senza neanche accorgersi, sospira. 
Col piccolo viso scuro come torba,

in un muto odore di ovile, 
un giovane è accanto al finestrino, 
nemico, quasi non osando aprire

la porta, dare noia al vicino. 
Guarda fisso la montagna, il cielo, 
le mani in tasca, il basco di malandrino

sull’occhio: non vede il forestiero, 
non vede niente, il colletto rialzato 
per freddo, o per infido mistero

di delinquente, di cane abbandonato. 
L’umidità ravviva i vecchi 
odori del legno, unto e affumicato,

mescolandoli ai nuovi, di chiassetti 
freschi di strame umano.
E dai campi, ormai violetti,

viene una luce che scopre anime, 
non corpi, all’occhio che più crudo 
della luce, ne scopre la fame,

la servitù, la solitudine. 
Anime che riempiono il mondo, 
come immagini fedeli e nude

della sua storia, benché affondino 
in una storia che non è più nostra. 
Con una vita di altri secoli, sono

vivi in questo: e nel mondo si mostrano 
a chi del mondo ha conoscenza, gregge 
di chi nient’altro che la miseria conosca.

Sono sempre stati per loro unica legge 
odio servile e servile allegria: eppure 
nei loro occhi si poteva leggere

ormai un segno di diversa fame – scura 
come quella del pane, e, come 
quella, necessaria. Una pura

ombra che già prendeva nome 
di speranza: e quasi riacquistato 
all’uomo, vedeva il meridione,

timida, sulle sue greggi rassegnate 
di viventi, la luce del riscatto. 
Ma ora per queste anime segnate

dal crepuscolo, per questo bivacco 
di intimiditi passeggeri, 
d’improvviso ogni interna luce, ogni atto

di coscienza, sembra cosa di ieri. 
Nemico è oggi a questa donna che culla 
la sua creatura, a questi neri

contadini che non ne sanno nulla, 
chi muore perché sia salva 
in altre madri, in altre creature,

la loro libertà. Chi muore perché arda 
in altri servi, in altri contadini, 
la loro sete anche se bastarda

di giustizia, gli è nemico. 
Gli è nemico chi straccia la bandiera 
ormai rossa di assassinî,

e gli è nemico chi, fedele, 
dai bianchi assassini la difende. 
Gli è nemico il padrone che spera

la loro resa, e il compagno che pretende 
che lottino in una fede che ormai è negazione 
della fede. Gli è nemico chi rende

grazie a Dio per la reazione 
del vecchio popolo, e gli è nemico 
chi perdona il sangue in nome

del nuovo popolo. Restituito 
è cosi, in un giorno di sangue, 
il mondo a un tempo che pareva finito:

la luce che piove su queste anime 
è quella, ancora, del vecchio meridione, 
l’anima di questa terra è il vecchio fango.

Se misuri nel mondo, in cuore, la delusione 
senti ormai che essa non conduce 
a nuova aridità, ma a vecchia passione.

E ti perdi allora in questa luce 
che rade, con la pioggia, d’improvviso 
zolle di salvia rossa, case sudice.

Ti perdi nel vecchio paradiso 
che qui fuori sui crinali di lava 
dà un celeste, benché umano, viso

all’orizzonte dove nella bava 
grigia si perde Napoli, ai meridiani 
temporali, che il sereno invadono,

uno sui monti del Lazio, già lontani, 
l’altro su questa terra abbandonata 
agli sporchi orti, ai pantani,

ai villaggi grandi come città. 
Si confondono la pioggia e il sole 
in una gioia ch’è forse conservata

– come una scheggia dell’altra storia, 
non più nostra – in fondo al cuore 
di questi poveri viaggiatori:

vivi, soltanto vivi, nel calore 
che fa più grande della storia la vita. 
Tu ti perdi nel paradiso interiore,

e anche la tua pietà gli è nemica.

Pier Paolo Pasolini

(1956; da “Le ceneri di Gramsci”)

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