Firenze, 30 ottobre 2018 – Ieri l’altro, lo ricordate, abbiamo anticipato di un giorno l’indice degli autori del mese di ottobre. Il motivo era costituito dal fatto di avere due vincitori alla pari, e in particolare un classico indiscusso del Parnaso mondiale e un bravissimo poeta italiano dei nostri giorni. Ambedue si sono guadagnati da tempo l’apprezzamento dei lettori di questo blog e delle nostre pagine facebook e questo mese i loro post sono risultati i più votati, dando luogo ad un ex aequo. Evviva! Vincono, insieme, Rainer Maria Rilke e Giacomo Trinci, rispettivamente con “Orfeo, Euridice, Ermes. Rainer Maria Rilke” e con il post anniversario Auguri a Giacomo Trinci. La cosa ci piace molto, perchè questa duplice affermazione coniuga in nome della poesia il passato e il presente e insieme, cancellando confini dopo avere scardinato cronologie, la poesia straniera e quella di casa nostra. Bravissimo Giacomo, autore di un testo molto suggestivo tratto da un canzoniere per la madre tra i più alti della nostra poesia novecentesca, “Senza altro pensiero”, degno di stare al fianco dei versi ispiratissimi di Caproni e Pasolini!
Al secondo posto registriamo ancora un ex aequo, con un argento spartito tra Esenin e Luzi, rispettivamente con Non vagheremo più. Sergej Esenin e Anniversario Mario Luzi con un convegno di studi, mentre il terzo posto spetta a un altro grande classico del Novecento italiano che risponde al nome di Andrea Zanzotto, con il post L’idea di Zanzotto.
Tra i vostri commenti ottobrini dedicati alla bellissima poesia di Trinci segnaliamo quelli di Elisabetta Biondi della Sdriscia, Isola Difederigo e Matteo Mazzone. Nell’ordine: “Provo a esprimere, a trasformare in parole, le tante emozioni suscitate in me dalla lettura di questi splendidi versi, che non parlano di dolore, ma sono essi stessi dolore: una sofferenza che rievoca “nidi pascoliani”, ma con un timbro piu asciutto, piu virile, non per questo meno straziante e straziato. Il poeta-figlio continua a vegliare, non piu la madre, ma “quello che non muore” e il ricordo, “tutto quello che e stato”, diviene “morso asciutto”, strazio che dilania, “il sunto di un racconto della carne”. L’andamento dei versi si adatta, con espressiva efficacia, a questo flusso di dolore: in particolare, quel “vedete” sospeso tra due linee, sembra prolungare nello spazio la visione della stanza materna, cosi come l’enjambement del verso 6 schiude alla vista i campi su cui si apriva quella porta a vetri. Auguri vivissimi a un grande poeta!”; “Il fatto è che Trinci non può che riconoscersi poeta nella condizione di figlio. Il figlio che in “Cella” partecipa al duello amoroso della sua ante-vita, che in “Resto di me” scrive con e per il padre, il figlio che in “Senza altro pensiero” torna a visitare quella camera dove vita e morte, morte e vita si sono fin dal principio inseparabilmente conosciute, lì dove pulsa il battito della poesia. La culla-sepolcro che lo ha battezzato poeta si ripresenta a Trinci con la gravità concettuale di una poesia senza trascendenza – “il sunto di un racconto della carne” – e la levità cantabile di un andante mozartiano. Di questo poeta sempre in cerca di origini ci pare specialmente ammirevole l’asciutta castità della sua pronuncia poetica, per un deposito d’antica pietà che avvicina questo figlio del Novecento ai nostri trecentisti. Sarà per questo, sarà per il calore della tua personalità umana che alla toscana si direbbe “tra il lusco e il brusco”, che anch’io, Giacomo, ti voglio bene”; “Giacomo saltimbanco, Giacomo serio, Giacomo uomo di vita e forse anche di pena, tutto abbandonato, suggestionato dalla propria dimensione ricca di fiabeschi accadimenti, di pinocchiane e magiche illusioni: è qui che il confine con la quotidianità posticcia viene inderogabilmente a rompersi. Così che le due sfere – reale e irreale – finiscono per contaminarsi: è difficile in Giacomo disambiguare, smembrare l’irreale sogno poetico dalla reale mondizia mondana. È il tema del posticcio, del quasi-fatto che lo rende poeta-fanciullo, meglio forse dire un fanciullino d’età adolescenziale, dolce quanto scontroso, frivolo quanto analitico. Tutto in Giacomo è ponderata calma poetica: il fulcro tematico delle sue liriche si concentra in una skomma finale, in un aculeus preparato sempre coscienziosamente dal suo grillo parlante. Voce estetica, canone comparativo e integrativo di un qualcosa in più, quel più che architettonicamente si oppone al geometrizzante mondo del niente, del non senso. Ti voglio bene Giacomo!”.
A domani, con un nuovo mese, nuovi poeti e nuove poesie!
Marco Marchi
La madre di Giacomo Trinci
VEDI I VIDEO Io scrivo poesie. Giacomo Trinci ed altri poeti a Castelfiorentino (2005) , Trinci su Italo Svevo, con sue poesie (2012) , Trinci legge da “Inter nos” (da 5:00) , Ancora da “Inter nos” , “Dona eis requiem sempiternam”
Firenze, 13 ottobre 2018 – Ricordando che ieri ricorreva l’anniversario della nascita di Giacomo Trinci (Pistoia, 12 ottobre 1960).
Caro Giacomo, con il tuo ultimo “Inter nos”, edito da Aragno, che libro importante, hai scritto! Un libro per il lettore impegnativo quanto bello, e per te per molti aspetti decisivo come può essere un maturatissimo e insieme sorprendentemente rivelatorio bilancio. Ma mi è capitato in questi giorni di rileggere la tua raccolta del 2006, “Senza altro pensiero”, e torno a dirti con rinnovata convinzione: che libro strepitoso anche allora scrivesti! Tutto strazio e delicatezza, limpido e misterioso, “altrove” e al centro di ogni altro pensiero, com’è delle parole della poesia.
Un canzoniere per la madre, “Senza altro pensiero”, in cui continuativamente il lettore si ritrova alle vertiginose altezze della tua opera d’esordio: quell’indimenticabile “Cella” da cui nel 1994 ha preso l’avvio il tuo percorso di poeta, che mi permise allora di riconoscere in te un sicuro poeta della contemporaneità, da ascrivere senza timori a un quadro storico (la militanza, per noi, è proprio questo): Trinci, in una mia silloge di scritti critici, subito assieme a Tozzi, Trinci con Luzi e con Zanzotto (questo con generosa attinenza al vero pubblicamente mi riconosce oggi Paolo Maccari nella sua pregevole, centratissima postfazione ad “Inter nos”).
Quel che è venuto dopo – da “Voci dal sottosuolo” al tuo “Pinocchio” in versi, a “Inter nos” – è disceso da lì. Ma è con “Resto di me” e con “Senza altro pensiero”, prima del libro ultimo che potremmo definire libro di consuntivo e di crescita, che i vincoli con le origini sono tornai a farsi più stretti, al punto che queste due raccolte mi si presentano come una sorta di splendido, bipartito corollario analitico a quanto “Cella” magnificamente registrava e quanto in “Inter nos” culmina.
L’io – ecco il punto essenziale – risaliva in “Cella” all’”ante-vita” e partecipava allo scontro amoroso tra il Padre e la Madre: si insinuava nella stretta che lo faceva gemere e imprecare, nascere e morire, aggiungendo febbre a febbre, ansito a ansito, sporcandosi e amando fino in fondo, per poi ritrovarsi – le suggestioni di Rimbaud e del Pasolini dell’”Usignolo” già si autocertificavano – figlio appeso a quella croce, inchiodato.
Dominava in “Cella” una scena dell’arte che è scena amorosa: due forme di lotta di cui non è dato sapere l’esito, forse neppure le ragioni. Ma lo scontro avveniva, feroce, per via di cultura. Il manierismo di un rimatore d’amore e di tormento come Michelangelo non si risolveva in parnassianesimo a freddo o in vacuo progetto del postmoderno. La lievitazione dei sentimenti, e in primo luogo del sentimento top dell’amore, si trovava piuttosto costretta a delegare i suoi oltranzistici e scandalosi messaggi, per risultare naturale, all’abnorme e al falso, sino alle forzature antichizzanti, linguistiche e di situazione, del melodramma.
Il problema dell’arte e una casistica musicalmente potenziata, di valore archetipico, rivendicavano insomma, da subito, trattamenti e coniugazioni garanti dell’unica storicità concessa a chi scrive poesia, di chi tenta la vita proprio riconoscendo intriso di morte ciò che persegue con il fanatismo di un adoratore di beni intatti, di volti perduti e potenzialmente irremeabili.
In “Senza altro pensiero” la «cella» testualmente ritorna (penso al bellissimo quella era la sua camera – vedete – di p. 33 che qui si propone, ma i pezzi bellissimi non si contano), ed è di nuovo un luogo condiviso di vita e di morte di cui sei il caldo testimone, in cui carnalmente si riassumono e si lasciano raccontare la storia di tua madre, la tua e quella del mondo.
Bianca Garavelli ha scritto per te pagine ammirate e ricche di spunti, giustamente enucleando la funzionale presenza in “Senza altro pensiero” di modelli novecenteschi di “canzoniere alla madre”. Ma mancano i due riferimenti più utili per capire: la «mari fruta» di Pasolini, passeretta sugli sfondi dialettali e in lingua di Casarsa, e quell’Anna Picchi tutta natura e rime aperte dei “Versi livornesi” di Giorgio Caproni.
“Vergine madre, figlia del tuo figlio”, diceva il Poeta ultramondano. E come in Caproni, la tua «canzone» da nido pascoliano può dire alla fine, meglio di Freud, chi l’ha mandata: “suo figlio, il suo fidanzato”.
Marco Marchi
quella era la sua camera – vedete –
quella era la sua camera – vedete –
ogni giorno è da qui vive con me
da quando poi salendo queste scale
si sentiva più stanca fino ad ora
è qui il mio luogo che sorveglio fisso –
è in un secondo piano ed una porta
a vetri s’apre verso i campi ed oltre.
era stanca, diceva sempre più –
io sorvegliavo da lontano il cuore
io veglio ancora quello che non muore.
ora è ridotto all’osso è solo cella
astratto punto d’un astratto vero
tutto quello che è stato è un morso asciutto
è il sunto di un racconto della carne.
Giacomo Trinci
(da “Senza altro pensiero”, Aragno 2006)
I VOSTRI COMMENTI
Matteo Mazzone
Giacomo saltimbanco, Giacomo serio, Giacomo uomo di vita e forse anche di pena, tutto abbandonato, suggestionato dalla propria dimensione ricca di fiabeschi accadimenti, di pinocchiane e magiche illusioni: è qui che il confine con la quotidianità posticcia viene inderogabilmente a rompersi. Così che le due sfere – reale e irreale – finiscono per contaminarsi: è difficile in Giacomo disambiguare, smembrare l’irreale sogno poetico dalla reale mondizia mondana. È il tema del posticcio, del quasi-fatto che lo rende poeta-fanciullo, meglio forse dire un fanciullino d’età adolescenziale, dolce quanto scontroso, frivolo quanto analitico. Tutto in Giacomo è ponderata calma poetica: il fulcro tematico delle sue liriche si concentra in una skomma finale, in un aculeus preparato sempre coscienziosamente dal suo grillo parlante. Voce estetica, canone comparativo e integrativo di un qualcosa in più, quel più che architettonicamente si oppone al geometrizzante mondo del niente, del non senso. Ti voglio bene Giacomo!
tristan51
Con tutta probabilità il maggiore poeta italiano di oggi.
Paolo Parrini
L’incontro con Giacomo Trinci cambia la vita, il sentire quotidiano delle cose si fa doloroso andare, speranza carezza, mistero e scoperta.Tra tutte le Poesie questa è la mia più mia, dolorosamente mia direi. Se in mille prove la sua Arte sconfina oltre le mie capacità di fruitore di Poesia, qui mi arrampico con forza sulla sua anima e la sento, dentro. nel ricordo della Madre, nella mancanza che stride e addolora l’anima, si intrecciano e abbracciano i semi della memoria, della malattia, del declino, della salita al cielo, o a quel cielo che attende ognuno di noi, credenti o meno. Amo follemente questa Poesia …io sorvegliavo da lontano il cuore io veglio ancora quello che non muore….e poi il finale devastante nella sua bellezza, due versi che sono un mantra rimbombante e accogliente, che spiazza e abbraccia…tutto quello che è stato è un morso asciutto è il sunto di un racconto della carne. Dovessi dire cosa sia per me la Poesia racconterei queste parole, ma soprattutto inviterei a leggerle, amarle, farle proprie. Come provo ogni giorno a fare io che le amai da subito e per sempre.
Pietro Tarasco
Bellissima poesia, bravissimo poeta. Auguri Giacomo!
Damiano Malabaila
Saranno i tempi di crisi (anche se morbida, pur sempre crisi), ma oggi i poeti non mancano: molti, in genere colti, attivissimi, quasi tutti con il loro rispettabile demone… Poi ci sono i poeti veri, molti meno: quelli che vale davvero la pena leggere e che probabilmente rimarranno; e poi ci sono quelli bravi, come Giacomo Trinci e – almeno secondo me – pochi altri: sono quelli che hanno il dono di rendere profondamente necessaria ogni loro occasione di poesia.
Isola Difederigo
Il fatto è che Trinci non può che riconoscersi poeta nella condizione di figlio. Il figlio che in “Cella” partecipa al duello amoroso della sua ante-vita, che in “Resto di me” scrive con e per il padre, il figlio che in “Senza altro pensiero” torna a visitare quella camera dove vita e morte, morte e vita si sono fin dal principio inseparabilmente conosciute, lì dove pulsa il battito della poesia. La culla-sepolcro che lo ha battezzato poeta si ripresenta a Trinci con la gravità concettuale di una poesia senza trascendenza – “il sunto di un racconto della carne” – e la levità cantabile di un andante mozartiano. Di questo poeta sempre in cerca di origini ci pare specialmente ammirevole l’asciutta castità della sua pronuncia poetica, per un deposito d’antica pietà che avvicina questo figlio del Novecento ai nostri trecentisti. Sarà per questo, sarà per il calore della tua personalità umana che alla toscana si direbbe “tra il lusco e il brusco”, che anch’io, Giacomo, ti voglio bene.
Elisabetta Biondi della Sdriscia
Provo a esprimere, a trasformare in parole, le tante emozioni suscitate in me dalla lettura di questi splendidi versi, che non parlano di dolore, ma sono essi stessi dolore: una sofferenza che rievoca “nidi pascoliani”, ma con un timbro piu asciutto, piu virile, non per questo meno straziante e straziato. Il poeta-figlio continua a vegliare, non piu la madre, ma “quello che non muore” e il ricordo, “tutto quello che e stato”, diviene “morso asciutto”, strazio che dilania, “il sunto di un racconto della carne”. L’andamento dei versi si adatta, con espressiva efficacia, a questo flusso di dolore: in particolare, quel “vedete” sospeso tra due linee, sembra prolungare nello spazio la visione della stanza materna, cosi come l’enjambement del verso 6 schiude alla vista i campi su cui si apriva quella porta a vetri. Auguri vivissimi a un grande poeta!
Antonella Bottari
Una poesia stringente nel morso dei ricordi, questa di Trinci che scopro pian piano. È un umanissimo struggimento che non cede alla retorica e che sommuove lo spirito di chi leggendo, ne possa sentire le profonde vibrazioni. Una versificazione moderna, non banale, non abusata, che rimanda la mia memoria ad altri notissimi versi: ” Forse, infranto il mistero, nel chiarore del mio ricordo un’ombra apparirai, un nonnulla vestito di dolore. Tu, non diversa, tu come non mai…” Auguri Trinci.
Roberta Maestrelliberti
Ci sono poeti, come Trinci, che riescono a mettre in poesia la vita vera, e di essa anche i momenti più dolorosi. Così commuovono, nel senso che muovono emozioni, ma nello stesso tempo consolano perchè le parole della Poesia rendono il dolore condivisibile e quidi più accettabile. La rileggerò ancora.. e attraverso le sue parole abbraccerò il mio dolore…
Marco Capecchi
“io veglio ancora quello che non muore”: la poesie va letta . E quando avverti che ogni commento la sciuperebbe è segno che sei di fronte alla grande poesia. Grazie Giacomo Trinci.
Duccio Mugnai
E’ vero quanto scrive Marchi, sembra anche a me una struggente levitazione sensitiva, dove il dolore non trova riposo, pur cercando ossessivamente requie nella “cella”. “Il morso” del luogo connesso al ricordo, ci lega ad un rapporto con la madre che, per ciascuno di noi, chi più chi meno, è ,soprattutto e prima di tutto, sangue e carne, molto prima di ogni riduzione o cancellazione intellettiva, ogni esorcismo banalizzante e psichico, che pretenderebbe di negare l’esistere.
Aretusa Obliviosa
Qualcosa di sublime, di delicatissimo caratterizza qui il vincolo, sacro vincolo, che lega il figlio alla madre. Come la vestale di un antico tempio, qui il poeta si fa custode di un sentimento primitivo e inviolabile. Difficile concepire un amore piu grande.
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