Firenze, 30 novembre 2023 – Vince per il mese di novembre Federigo Tozzi, con una cospicua messe di commenti che chiamano in causa, assieme al Tozzi traduttore di Baudelaire protagonista del post, anche la sua poetica complessiva, anche il suo radioso esempio di classico novecentesco. Grande Tozzi! (Tozzi traduce Baudelaire). L’argento va a un altro decisivo autore, stavolta del secondo Novecento italiano, poeta e scrittore pure lui, sicuramente grande pure lui: Pier Paolo Pasolini, con un suo testo tra i più significativi e rappresentativi: proprio il poemetto che dà il titolo a Le ceneri di Gramsci (Anniversario Pasolini).
Al terzo gradino del podio registriamo un ex-aequo tra un misconosciuto scrittore di magnifici racconti che risponde al nome di Arturo Loria (Il falco e l’aquila. Arturo Loria) e Giuseppe Ungaretti con una in assoluto delle sue poesie di guerra più note e giustamente celebrate, Fratelli (Fine della Grande Guerra, con una poesia di Ungaretti).
Ed eccoci ai vostri commenti, tra cui segnaliamo quelli di Giacomo Trinci, Antonietta Puri e Arianna Capirossi. Nell’ordine: “Imitazione, emulazione; tradizione, traduzione. All’incrocio di questo quartetto si gioca il giogo crudele della letteratura tozziana. Un autore colto e “primitivo” insieme, che mette in campo la sua sfolgorante consapevolezza tragica in questo sonetto che trascina in italiano, da una tradizione all’altra, il fraterno sanguinare di Baudelaire. L’autore francese e l’autore italiano si fronteggiano, mescolano le acque, fedelmente tralucono l’uno sull’altro, tanto da evidenziare la straordinaria presenza, “spettrale”, si direbbe, di un Baudelaire italiano d’inizio novecento, pronto ad assimilare la via crucis del poeta francese: donando voce e corpo ad uno spettro aggirante nella modernità appena inaugurata.”; “Tozzi deve essersi sentito molto vicino a Baudelaire, se oltre ad averlo letto, amato e approfondito, si è cimentato nella traduzione della sua undicesima Fleur, ‘Le Guignon’, esemplare forse per cogliere gli elementi comuni tra i due autori così diversi per tempi, spazi, formazione e dipendenze letterarie, a cominciare dall’esistenza travagliata di entrambi e da una visione inclemente e al tempo stesso pietosa e commossa dell’uomo, con le sue bassezze e sublimità, le sue cadute e i tentativi di risollevarsi, l’oscillare perpetuo tra il tedio e l’ideale. C’è in entrambi la coscienza dell'”esiliato” e quindi l’estraneità del mondo in cui vivono: ogni tentativo di elevazione sembra in essi fallire, con il ritorno all’accidia e a una frustrazione comunque non accettata. Il loro modo di esorcizzare il fallimento è diverso tuttavia: mentre il poeta francese lo fa perseguendo con religiosa dedizione l’ispirazione alla bellezza e all’arte, Tozzi prende chiara coscienza del proprio male con la virile volontà di superarlo, pur senza giungere ad una redenzione vera e propria. Tanto in Baudélaire, quanto nello scrittore senese, le parole sono vere, perché sgorgano da una continua e profonda meditazione sull’intero contesto delle loro esistenze: il primo, conclamato ‘Poeta impeccabile…’ da T. Gautiér, colui che fa dire a Hugo aver ‘dato nuovi meriti al cielo dell’arte’ e un Tozzi… un poeta? Oh, sì! Soprattutto – secondo me – in ‘Bestie’ dove ‘Fin dall’inizio…invoca la libertà, la dolcezza, il ricongiungimento’ con ‘…gli sguardi di un’anima già avvertita piena di occhi chiusi ‘ (Marco Marchi, “Bestie”, 1994). Qui, pur nello stile frammentario insolito rispetto alla struttura narrativa tradizionale, si coglie – più che una serie di spunti per riflessioni filosofiche – una visione metafisica del paesaggio di sfondo, con un forte slancio lirico che si ritrova anche nelle opere prettamente narrative in cui, ad una prosa asciutta e a una lingua scarna, degne di un grande scrittore, si mescolano una grande finezza lirica e delle suggestioni uniche.”; “Assai interessante questa prova traduttoria di Tozzi sul testo di Baudelaire: rimanendo fedele alla lettera dell’originale, Tozzi assimila perfettamente i temi baudelairiani, rivelando una sostanziale affinità con lo stile e la sensibilità del francese. Troviamo tuttavia gli adattamenti resi necessari dalla lingua di arrivo. Le immagini dell’originale prendono nuova vita al ritmo dell’endecasillabo, accentuando la loro solennità. Tozzi, seppur conservativo, in conclusione propone una piccola variazione, necessaria al rispetto della metrica e, nel contempo, soluzione metaforicamente efficace: il ‘secret’ baudelairiano si tramuta in ‘sogni avvolti / da grandi solitudini profonde’; sono le stesse ‘solitudes profondes’ dell’originale, però ancora più ‘grandi’, inquietanti, sublimi. Il traduttore dunque, partendo dal componimento francese, crea un ritmo nuovo e plasma un’immagine inedita, riuscendo a esaltare la tematica trattata, pur nel contesto di una traduzione altrimenti ‘bella e fedele'”. ; “Tozzi da grande poeta e da grande uomo di cultura ripercorre, inevitabilmente, le scie oscure di un altrettanto letterario passato; e con “l’oscuro” Baudelaire sembra intessere, ora, un prolifico e forte legame di attività comprensiva dello stesso. L’interrogatorio-affermazione da cui tutto parte è ‘L’Art est long et le Temps est court’ – (che ritorna anche in Balzac nel suo ‘Il capolavoro sconosciuto’): e anche in Tozzi l’arte, cioè il canto lirico – umanisticamente intesa come prosecuzione eterna, pura e gloriosa delle vicende umane – diviene lo strumento principale per porre domande – e semmai a rispondere – alla brevità (e nel caso tozziano direi stringatezza) della vita: cioè che essa può dare, come lo dà, perché e come noi (com)partecipiamo in essa. La modernità di Tozzi consiste, tra l’altro, anche in questo: un’analisi speculativa – che ha il suo illustre antecedente italiano in Svevo – atta a verificare lo scopo della vita umana; e classicamente, come una risposta certa non c’è (se non miriadi e poliedriche varianti approssimanti), così il mezzo più idoneo a questo tipo di indagine rimane la poesia, che con la sua forza creatrice mitiga, appiana, ridistribuisce umori e malumori”. Ma belli anche i commenti di Matteo Mazzone, tristan51 e Isola Difederigo.
Marco Marchi
Tozzi, Baudelaire e un fiore del male
VEDI I VIDEO “Le Guignon” di Charles Baudelaire , Baudelaire secondo Valerio Magrelli , Tozzi, la scrittura crudele , Scene da “Con gli occhi chiusi” di Francesca Archibugi (1994)
Firenze, 13 novembre 2023 – La mappa delle traduzioni dal francese di Federigo Tozzi prevede nomi e testi significativi. Se nell’Archivio Tozzi si conservano ancora gli originali della Principessa Maleine di Maeterlinck e di Una notte al Lussemburgo di Remy de Gourmont, se una lettera di Novale testimonia perlomeno di un progetto di traduzione del romanzo La Cathédrale di Huysmans, anche il settore poetico si sapeva dover annoverare prodotti che non fossero solo versioni di liriche di Francis Jammes.
Sta di fatto che tra questi materiali è a suo tempo emerso un importante, testimoniabile rapporto fra Tozzi e l’opera di Charles Baudelaire. Si tratta dell’undicesimo componimento delle Fleurs du Mal, il sonetto Le Guignon, tradotto da Tozzi con sostanziale fedeltà alla lettera dell’originale.
La carta dell’autografo è conservata in un inserto con datazione di mano di Glauco Tozzi – il figlio dello scrittore, editore delle sue opere – «Roma, luglio 1917». Ciò rende plausibile il collegamento con un esemplare delle Fleurs du Mal posseduto da Tozzi e da lui datato nel frontespizio «Roma, luglio del 1917». Ma anche l’indicazione di Glauco Tozzi non esclude una frequentazione delle Fleurs da parte dell’autore ben più antica, arretrabile almeno, stando alle attestazioni dei Registri dei prestiti della Biblioteca Comunale di Siena, al 4-8 maggio 1905: Tozzi, allora, era appena ventiduenne.
Certo è che la scelta di una poesia da tradurre come il sonetto Le Guignon di Baudelaire appare per Tozzi pertinente e ad ogni altezza del suo percorso artistico calamitante: un testo da affinità elettive, si direbbe, in cui lo scrittore senese, fino dal primo verso, è irresistibilmente richiamato ad una propria poetica, ai fondamenti stessi del suo bisogno espressivo: posto come di fronte ad uno specchio.
«Pour soulever un poids si lourd»: la condanna cui il ribellistico figlio di Eolo è sottoposto è la medesima che Tozzi sta continuativamente scontando da sempre. La sfortuna (le guignon) e l’inferno derivabili da un testo di Baudelaire si attualizzano. Subito si riattiva la dicotomia manichea efficiente in Tozzi tra anima e opaco involucro terrestre, testimoniata dagli antichi documenti epistolari indirizzati alla fidanzata (si vedano gli ostacoli corporei alla pienezza dell’amore e alla «vera vita delle sensazioni» nella lettera del 3 gennaio 1908) e, splendidamente, da tutta un’opera.
Pesantezza e leggerezza. Anche l’impegno lirico certifica l’«enorme martirio» subìto. Servirà affidarsi alla scrittura? L’Arte tenta di reagire a un disagio, di rispondere, smentendo l’assurda arbitrarietà di ciò che il Tempo è disposto a concedere al nuovo Sisifo, mitologico «uomo dei dolori» pronto a reimpostare l’imperscrutabilità del proprio esempio di disubbidiente punito secondo l’elementare dialettica luce/tenebra, qui ravvisabile nel prosieguo dei versi, dislocata nella prima terzina del sonetto.
Procedere nel buio, con gli occhi chiusi, in cerca della «bocca che possa parlarci dolcemente» (La gioia, in Barche capovolte), sperando di sanare la scollatura nominalistica che sussiste tra le parole e le cose, di riconquistare l’anima… Les Fleurs du Mal e le Lamentazioni finiscono in Tozzi per confondersi, al pari della scienza di William James e dell’ardore mistico di Santa Caterina.
L’Arte è lunga, il Tempo breve (dall’aforisma di Ippocrate «Vita brevis, ars longa» ai sonetti di Alfieri e Foscolo: «Lunga è l’arte sublime, il viver breve», CLXXXVII, «Breve è la vita e lunga l’arte», XII), il cammino di risalita dall’abisso impervio e faticoso, gli strumenti cui ricorrere per tentare l’impresa inadeguati: fatalmente imperfetti.
All’insegna di una sorta di antiparnassianesimo biologico, lontano da marmoree compiutezze e vantabili impassibilità e fiducioso invece nelle prospettive dal basso, Tozzi e Baudelaire si ritrovano assieme, partecipi di una medesima totalizzante sfida linguistica della nostalgia e della consapevolezza, se il poeta delle Fleurs, come ha scritto con pertinenza Luigi de Nardis, «crede in un mondo di forme perfette e esistenti da sempre, irraggiungibili come i gioielli sepolti nel cimitero solingo della sua anima, a cui tenta di avvicinarsi per scandagli, talvolta anche usando rabbiosamente la zappa». Di più: «La sua ossessione compositiva nasce proprio da questa paziente rabbia di ricerca nel profondo, verso le architetture di una vita anteriore, verso gli archetipi della bellezza».
Sono definizioni travasabili. Non a caso, pure all’interno di un singolo testo tradotto, l’universo precipitato tozziano, perennemente anelante a redenzioni purificatrici e ricongiungimenti a un rigoglioso podere di partenza, torna suo malgrado a profilarsi nei termini di un unico, protratto day after della cacciata: granitico allestimento di inganni che «trasuda il delitto» (Macchia), criptico scenario di mere possibilità sigillate, di «misteriosi atti nostri» solitari e sepolti, inesplicabili e solo rappresentabili nelle loro contraddittorie emergenze di superficie.
«Era una mattina d’estate – si legge in una prosa di Bestie –, calda e accecante. Camminavo piano, e sempre di più la natura mi pareva un sogno immenso della mia anima. Il cuore mi batteva di contentezza». Nessun «tamburo velato» al seguito di «marce funebri», come nel testo delle Fleurs. Ma anche la natura di Le Guignon promette e si ritrae, indica e si nasconde, è immobile e ferisce.
Il che equivale a dire Tozzi assieme a Baudelaire e assieme a Leopardi, i grandi inauguratori del moderno. Ciò nonostante il desiderio baudelairianamente superbo dell’Opera, analogamente a quanto accade tra i confini del piccolo cimitero di campagna che ritroviamo nelle pagine tozziane di Adele (luogo dimenticato da tutti, ma non dallo scrittore che ne registra puntualmente il fascino), continua a inviare segnali, a svolgere le sue ambiguità mortuarie di attrazione e di potenziale rivalsa: il suo profumato secret, il suo luccichio prezioso e inaccessibile: «È un cimitero che non ode se non i canti degli uccelli», «tutto aperto all’infinito».
Marco Marchi
Per sollevare un peso così greve…
Per sollevare un peso così greve,
Sisifo, ci vorrebbe il tuo coraggio!
Benché abbia cuore per mettermi all’opera,
È l’Arte lunga e in vece il Tempo è breve.
Lontano dalle sepolture celebri,
E verso un cimitero ch’è isolato,
Il cuore come un tamburo velato,
Battendo va dietro le marce funebri.
Molti gioielli dormono sepolti
Nelle tenebre folte e negli oblii,
Lontano dai picconi e dalle sonde.
E molti fiori a dare son restii
Profumi dolci come sogni avvolti
Da grandi solitudini profonde.
Le Guignon
Pour soulever un poids si lourd,
Sisyphe, il faudrait ton courage!
Bien qu’on ait du coeur à l’ouvrage,
L’Art est long et le Temps est court.
Loin des sépultures célèbres,
Vers un cimetière isolé,
Mon coeur, comme un tambour voilé,
Va battant des marches funèbres.
Maint joyau dort enseveli
Dans les ténèbres et l’oubli,
Bien loin des pioches et des sondes;
Mainte fleur épanche à regret
Son parfum doux comme un secret
Dans les solitudes profondes.
Charles Baudelaire
(il testo di Baudelaire è tratto da “Les Fleurs du Mal”, 1857)
I VOSTRI COMMENTI
tristan51
In un “universo schiacciato” come quello che l’opera di Tozzi ci propone è inevitabile ravvisarvi un forte anelito alla leggerezza, alla liberazione dai vincoli della pesantezza avvertita come una inesorabile condanna: il desiderio di un’anima. È così che, invece di rivolgersi ancora una volta alla propria anima incerta perfino della propria esistenza, Tozzi a chiusura di “Bestie” chiede ad una naturale e letterarissima allodola di prendere la sua anima, di farla finalmente volare.
tristan51
Ripensando a Tozzi: anche la scelta di un autore da tradurre, e in particolare di un testo di quell’autore da tradurre, costituiscono sicuri elementi di poetica.
Marco Capecchi
Tozzi non rabdomante, ma scrittore consapevole della propria arte. Il suo misurarsi con la cultura europea ne è, assieme alle letture fatte e testimoniate, una prova incontrovertibile. Dispiace che questo centenario della morte passi senza un approfondimento e uno scavo su uno scrittore che ad ogni reiterata lettura offre spunti di riflessione e appare sempre moderno e contemporaneo. Quasi scrittore asintotico nel senso che illumina e non si fa raggiungere.
Chiara Scidone
Tozzi data la vicinanza sentita nei confronti di Baudelaire è riuscito a fare una traduzione che ha reso giustizia all’originale del poeta francese.Personalmente adoro “I fiori del male” e non poteva essere fatta traduzione migliore.
Antonietta Puri
Tozzi deve essersi sentito molto vicino a Baudelaire, se oltre ad averlo letto, amato e approfondito, si è cimentato nella traduzione della sua undicesima Fleur, “Le Guignon”, esemplare forse per cogliere gli elementi comuni tra i due autori così diversi per tempi, spazi, formazione e dipendenze letterarie, a cominciare dall’esistenza travagliata di entrambi e da una visione inclemente e al tempo stesso pietosa e commossa dell’uomo, con le sue bassezze e sublimità, le sue cadute e i tentativi di risollevarsi, l’oscillare perpetuo tra il tedio e l’ideale. C’è in entrambi la coscienza dell'”esiliato” e quindi l’estraneità del mondo in cui vivono: ogni tentativo di elevazione sembra in essi fallire, con il ritorno all’accidia e a una frustrazione comunque non accettata. Il loro modo di esorcizzare il fallimento è diverso tuttavia: mentre il poeta francese lo fa perseguendo con religiosa dedizione l’ispirazione alla bellezza e all’arte, Tozzi prende chiara coscienza del proprio male con la virile volontà di superarlo, pur senza giungere ad una redenzione vera e propria. Tanto in Baudélaire, quanto nello scrittore senese, le parole sono vere, perché sgorgano da una continua e profonda meditazione sull’intero contesto delle loro esistenze: il primo, conclamato “Poeta impeccabile…” da T. Gautier, colui che fa dire a Hugo aver “dato nuovi meriti al cielo dell’arte” e un Tozzi… un poeta? Oh, sì! Soprattutto – secondo me – in “Bestie” dove “Fin dall’inizio…invoca la libertà, la dolcezza, il ricongiungimento” con “…gli sguardi di un’anima già avvertita ‘piena di occhi chiusi’. ” (Marco Marchi, “Bestie”, 1994). Qui, pur nello stile frammentario insolito rispetto alla struttura narrativa tradizionale, si coglie – più che una serie di spunti per riflessioni filosofiche – una visione metafisica del paesaggio di sfondo, con un forte slancio lirico che si ritrova anche nelle opere prettamente narrative in cui, ad una prosa asciutta e a una lingua scarna, degne di un grande scrittore, si mescolano una grande finezza lirica e delle suggestioni uniche.
Maria Grazia Ferraris
Una rilettura – Baudelaire e Tozzi – in una presentazione critica così ricca ed interessante da spingere di forza alla lettura diretta dei tesi di F. Tozzi, che rimane purtroppo, nonostante i vari e importanti contributi critici, al margine della letteratura italiana: di questo contributo illuminante e aperto in direzioni ramificate mi sento di ringraziare il nostro curatore della rubrica di poesia. Poi, in specifico, circa Le Guignon e la traduzione tozziana occorre riflettere su una sottolineatura: “… un testo da affinità elettive, si direbbe, in cui lo scrittore senese, fino dal primo verso, è irresistibilmente richiamato ad una propria poetica, ai fondamenti stessi del suo bisogno espressivo: posto come di fronte ad uno specchio…. si riattiva la dicotomia manichea efficiente in Tozzi tra anima e opaco involucro terrestre” con la sfida- che è quella coraggiosa ma impotente di Sisifo- della consapevolezza: “Molti gioielli dormono sepolti…”.
Antonella Bottari
“Da grandi solitudini profonde”. Apogeo di sintesi poetica in Tozzi che raccoglie il testimone di Baudelaire non appropriandosene, ma incidendo su pietra, come il suo eteronimo, verso dopo verso, il male e la distanza dal mondo. Come rammenta Omero di Sisifo, re crudele, così il Tempo non dà luogo ad ulteriori movimenti del verso,se non il riscriverli in una corrispondenza di amorosi sensi di foscoliana memoria. Poichè se le occorrenze dei singoli termini sconfinano il campo semantico loro assegnato, Tozzi, nel tradurle ne conferma la potenza significante e rilucente come pietra levigata dall’uso, ma inesausta.
Yumiko Nakajima
Quando leggo “Le Guignon” di Baudelaire che tradotte da Tozzi, mi sento la forte influenza da Baudelaire sulle opere di Tozzi, soprattutto “Maiolica dipinta” negli “Specchi d’acqua”. Nelle poesie di Baudelaire e di Tozzi si sentono il mondo oscuro e solitario, il suono che ha rotto il silenzio (l’uccello nero gracchia e un tamburo velato dietro le marce funebri), il peso come il senso della colpa e le cose dimenticate e sepolte. Mi sento la velocita’ del tempo (come il flusso della coscienza, che rimane sepolto a lungo sotto la soglia, appare un attimo, il pensiero jamesiano) leggendo le parole come Sisifo e abbarbicto all’erta. La luce della luna che penetra nel buio e riflessa sullo specchio d’acqua (della fontana) nella “Maiolica dipinta” di Tozzi, mi fa pensare al paesaggio di Siena.
Isola Difederigo
Nel sistema chiuso, fortemente selettivo e autoreferenziale dell’ars tozziana, anche l’esercizio della traduzione rientra nel progetto di “lettura totale” inglobante l’attività critico-saggistica e quella del Tozzi antologista dei prediletti antichi scrittori senesi; un progetto interessato ad autori e titoli promossi, come esemplarmente avviene in questo caso, a occasioni di autoverifica di una poetica del profondo, al traguardo primonovecentesco di una modernità che in Tozzi – secondo il precetto baudelairiano – “è solo una metà dell’arte. L’altra è la sua eternità”.
framo
Ardua impresa sprofondare nei recessi delle solitudini più recondite per il grande poeta versato sulla tragedia dell’umano esistere, nel tentativo immane di (ri)salir la china. E ciò che in poesia si paventa come opera ostica e complessa, per tematica (l’angoscia per il dolore) e forma, in casi rari e luminosi come questo – espressione di spiriti eccezionali, accomunati da un non dissimile sentire -, può produrre aperture dalla traducibilta’ infinita (Dante … Leopardi … Baudelaire … Tozzi …).
Arianna Capirossi
Assai interessante questa prova traduttoria di Tozzi sul testo di Baudelaire: rimanendo fedele alla lettera dell’originale, Tozzi assimila perfettamente i temi baudelairiani, rivelando una sostanziale affinità con lo stile e la sensibilità del francese. Troviamo tuttavia gli adattamenti resi necessari dalla lingua di arrivo. Le immagini dell’originale prendono nuova vita al ritmo dell’endecasillabo, accentuando la loro solennità. Tozzi, seppur conservativo, in conclusione propone una piccola variazione, necessaria al rispetto della metrica e, nel contempo, soluzione metaforicamente efficace: il “secret” baudelairiano si tramuta in “sogni avvolti / da grandi solitudini profonde”; sono le stesse “solitudes profondes” dell’originale, però ancora più “grandi”, inquietanti, sublimi. Il traduttore dunque, partendo dal componimento francese, crea un ritmo nuovo e plasma un’immagine inedita, riuscendo a esaltare la tematica trattata, pur nel contesto di una traduzione altrimenti “bella e fedele”.
Elisabetta Biondi della Sdriscia
Se nei romanzi e nelle novelle sono i personaggi tozziani a vivere attanagliati da un’angoscia esistenziale paralizzante – espressa con la straordinaria modernità della nuda registrazione dei fatti, senza nessi di causalità, senza spiegazioni, con il linguaggio franto della paratassi che Tozzi utilizza al massimo delle possibilità espressive – nella produzione poetica è l’autore in prima persona a parlarci con versi intensi e rivelatori dalla sonorità difficile, che dalle suggestioni dell’Inferno dantesco sembrano trarre istintiva ispirazione. Dante, dunque, e Leopardi, ma non solo e nella presente versione della poesia di Baudelaire, tanto sentita affine da volerne affrontare il cimento impervio della traduzione, ritroviamo temi tozziani ineludibili.
Giacomo Trinci
Imitazione, emulazione; tradizione, traduzione. All’incrocio di questo quartetto si gioca il giogo crudele della letteratura tozziana. Un autore colto e “primitivo” insieme, che mette in campo la sua sfolgorante consapevolezza tragica in questo sonetto che trascina in italiano, da una tradizione all’altra, il fraterno sanguinare di Baudelaire. L’autore francese e l’autore italiano si fronteggiano, mescolano le acque, fedelmente tralucono l’uno sull’altro, tanto da evidenziare la straordinaria presenza, “spettrale”, si direbbe, di un Baudelaire italiano d’inizio novecento, pronto ad assimilare la via crucis del poeta francese: donando voce e corpo ad uno spettro aggirante nella modernità appena inaugurata.
Giulia Bagnoli
Come i fiori, che non riescono più ad emanare il loro profumo, e, con esso, a sprigionare la loro bellezza, perché avvolti dalla solitudine, così Pietro, incapace di vedere la realtà, si sente umiliato da ciò che è bello e si avvia verso l’abisso, dove non ci sono più odori gradevoli e tutto è tetro e triste. La bellezza, come possiamo riscontrare anche nei versi di “Spleen”, sta lasciando il posto all’angoscia.
Matteo Mazzone
Tozzi da grande poeta e da grande uomo di cultura ripercorre, inevitabilmente, le scie oscure di un altrettanto letterario passato; e con “l’oscuro” Baudelaire sembra intessere, ora, un prolifico e forte legame di attività comprensiva dello stesso. L’interrogatorio-affermazione da cui tutto parte è “L’Art est long et le Temps est court” – (che ritorna anche in Balzac nel suo “Il capolavoro sconosciuto”): e anche in Tozzi l’arte, cioè il canto lirico – umanisticamente intesa come prosecuzione eterna, pura e gloriosa delle vicende umane – diviene lo strumento principale per porre domande – e semmai a rispondere – alla brevità (e nel caso tozziano direi stringatezza) della vita: cioè che essa può dare, come lo dà, perché e come noi (com)partecipiamo in essa. La modernità di Tozzi consiste, tra l’altro, anche in questo: un’analisi speculativa – che ha il suo illustre antecedente italiano in Svevo – atta a verificare lo scopo della vita umana; e classicamente, come una risposta certa non c’è (se non miriadi e poliedriche varianti approssimanti), così il mezzo più idoneo a questo tipo di indagine rimane la poesia, che con la sua forza creatrice mitiga, appiana, ridistribuisce umori e malumori.
Pietro Paolo Tarasco
Il mio felice incontro con la poetica tozziana è sempre vivo nei miei pensieri. Indimenticabili le sue cicale come “balocchi vivi dell’estate” e poi, ascoltandole, “vorrei non morire mai”.
Damiano Malabaila
Quello proposto da Marco Marchi mi sembra davvero uno degli approcci più filologicamente fondati e allo stesso tempo fecondi per indagare la labirintica, strepitosa e originalissima opera di Federigo. Ed è interessante vedere come il magnetico interesse per Baudelaire, arricchito e controbilanciato dal messaggio leopardiano, passa anche da strade così private come quelle dell’esercizio traduttorio.
Duccio Mugnai
Ogni contatto culturale con Tozzi è disvelante, molto spesso meraviglioso. A parte il fatto che tutte le volte che lo leggo ripenso alla mia gioventù universitaria, più invecchio e più capisco come letteratura e poesia, scrittura e lettura, siano veramente, come erano per lo scrittore, profondissimi fondamenti di vita, che ci strappano dai nostri incubi più profondi, li materializzano e li distruggono. E’ anche un approccio chiaramente riconducibile alla cultura filosofica e psicologica dello scrittore. Misurarsi poi, direttamente, con un sonetto di Baudelaire, con la sua traduzione e attualizzazione biografica-personalistica, ci fa capire ancor di più l’anima e l’arte di Tozzi. La sua “scrittura crudele”, impietosa nello scandagliare se stesso, sadicamente e con furore compositivo, ci pone di fronte ad uno specchio che spesso produce dolore, rabbia, delusioni o, in generale, gli stati dell’anima più nascosti e inconfessabili. Ma il martirio dell’uomo-personaggio Tozzi è troppo grande per essere taciuto e finisce per diventare strumento di consapevolezza e liberazione nella rappresentazione narrativa più cruda. Ed è vero ciò che scrive Baudelaire e Tozzi traduce: “Molti gioielli dormono sepolti / Nelle tenebre folte e negli oblii, /Lontano dai picconi e dalle sonde.”. Così nasce la letteratura come vita, anche se il Tempo è breve e l’Arte troppo grande.
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