31 marzo 2020 Vince Pasolini con un post incentrato su una sua poesia di forte ispirazione civile tratta da La religione del mio tempo (Alla mia nazione. Pier Paolo Pasolini). Alle sue spalle, a non enorme distanza per numero di commenti e apprezzamenti meritati, si piazzano altri due grandi autori del panorama letterario italiano novecentesco, con altrettanto notevoli testi. Due ex aequo, infatti, al secondo posto, con l’argento spartito fra il labronico-genovese Caproni e il senese Tozzi, rispettivamente Marzo secondo Giorgio Caproni e Uomini e rospi. Federigo Tozzi. E ancora un ex aequo al terzo gradino del podio, addirittura da spartisrsi in tre, con un classico italiano del primo Novecento che risponde al nome di Gabriele d’Annunzio, con il post dedicato ad una delle sue poesie senz’altro più suggestive di Alcyone, La sera fiesolana (Le fresche parole della sera. Gabriele d’Annunzio), un fuoriclasse americano del Parnaso mondiale come Walt Whitman, il Bardo di Foglie d’erba (Essere natura. Walt Whitman) e il grande Mario Luzi in abbinamento artistico con l’incisore materano Pietro Paolo Tarasco (Il cronista innamorato. Luzi secondo Tarasco). Una bella schiera di qualificatissimi autori, con Pier Paolo Pasolini in testa, che fa onore al nostro blog e alle vostre sensibili antenne di lettori di poesia ormai scaltriti, fattisi esigenti ed espertissimi!

Centrati, articolati e acuti come sempre i vostri commenti. Tra quelli dedicati al vincitore Pasolini ne scegliamo tre: quelli di Giacomo Trinci, Antonietta Puri ed Elisabetta Biondi della Sdriscia. Eccoli, anch’essi in ordine: “Il dire della poesia, in questa fase del percorso di Pasolini, è come scagliato nel dirupo della storia, nel magma di una realtà fangosa. Ma attenzione, in questa poesia ‘Alla mia nazione’ la gettata sintattica sprofonda la lingua attraverso l’ira e il furore in quel residuo di canto rovesciato tra due parole perdute: ‘male-madre’; la sconnessione tra suono e senso, fra intelligenza e orecchio che ha caratterizzato l’etimo da cui è nato il canto civile del Pasolini delle ‘Ceneri’ e della ‘Religione del mio tempo’, e che ha caratterizzato la sua musica della sintassi, trova qui una sintesi fulminante nel distico finale di questa poesia, dove, appunto mare e madre, rovesciano la loro traccia melodica in uno sprofondo e un’apocalisse ghiacciata. L’ombra antica del canto è qui annegata nel furore ragionato e ivi spento”; “Come non rimanere stupefatti di fronte alla sempre ‘fresca’ attualità di Pasolini, conoscitore, profeta e poeta – perché poeta essenzialmente è, di ieri, di oggi e di domani-…?. Di fronte a questo epigramma sull’Italia – che mai viene chiamata col suo nome, ma sempre come ‘nazione’, dando a questo apellativo una connotazione di ‘nascita’ più che quella di ‘terra dei padri’, come a ogni italiano che l’ami verrebbe il desiderio di chiamare la propria terra – si resta sorpresi per la sua incredibile attualità, per come la tentazione di disconoscere la nostra nazione aumenti con gli anni in maniera esponenziale e per come , oggi più che mai, comprendiamo come il popolo italiano sia purtroppo ancora un insieme troppo eterogeneo di persone nate entro certi confini (e li difendano con le unghie e coi denti, erigendo muri ideologici e razzisti) piuttosto che gente che abbia maturato e sia cresciuta, condividendo un senso di appartenenza. E’ pur vero che Pasolini sembra voler parafrasare Leopardi quando questi nella sua opera ‘Dei costumi degl’italiani’ ci definisce crudeli, cinici, incapaci di autentica moralità, indifferenti a tutto, privi di amor proprio e senso dell’onore…; ed è pure vero che noi italiani siamo portati verso quella che Gadda chiamava la ‘porca rogna del denigramento di noi stessi’ – e credo che entrambi avessero buone ragioni per affermarlo – , ma escludo che Pasolini, parlando del rifiuto verso la propria nazione, accusandola di essere il ricettacolo di figure turpi e disgustose, intenda disprezzare e insultare la patria, ma credo piuttosto che voglia denunciare – allora come ora (fatti gli ovvi distinguo) – una classe dominante guasta, falsa, farisaica e spietata e quindi …’sprofondino’ nel mare che circonda la nostra penisola quelle persone che, ieri come oggi, resero e rendono la nostra nazione indegna di stima!”; “Impegno politico e sociale: un binomio presente nella poesia di Pasolini fin dai versi friulani di Dov’è la mia patria, la sua seconda raccolta, edita nel 1949, e portato avanti con disperata e vitale determinazione attraverso tutta la sua opera, poetica e no. Nei versi affilati di questo epigramma – non canzone! – la visione sconsolata e indignata di un Paese di cui Pier Paolo coglie, con lungimiranza straordinaria, – siamo agli inizi degli anni ’60! – la decadenza morale, la perdita di identità, l’assenza di una dignità che meriti il nome sacro e puro di Patria, nel senso stretto ed etimologico del termine. Un’invettiva appassionata, un’imprecazione finale che si riallaccia direttamente alla poesia civile del Sommo Poeta rivendicando così alla propria poesia civile la dignità e la sacralità dell’impegno civile vissuto come religione. Poesia civile e vita vissuta, dunque, contraddittoriamente e tormentosamente intrecciate, con disperata vitalità, ben riassunte in questo verso friulano del ’49: ‘La me patria a è ta la me sèit di amòur’ [la mia patria è nella mia sete di amore]”.

Ma bello e segnalabile, sempre partendo dal concetto di patria, anche il commento di Matteo Mazzone: “La patria è da sempre stata utilizzata come analisi stereometrica della società, in primis, e della civiltà, in secundis. Il sentimento di Pasolini verso la nozione di nazione è notevolmente cambiato nel suo iter scrittorio: se agli inizi della sua sperimentazione poetica egli si lasciava trasportare dalla ‘rosada’ dei contadini friuliani, nuova élite anti-capitalistica a cui rivolgersi – espressione di una semiotica verginità e di una casto significante – progressivamente l’idea e l’ideale di nazione abitata da uomini puri in quanto creature etimologicamente innocenti – cioè non in grado di nuocere – si abbuia in conseguenza dello sviluppo neocapitalistico, conformistico e conformista: è quest’ultimo, un calderone, un guazzabuglio di benesseri effimeri, di gratuite e politicizzate spettacolarizzazioni borghesemente sconce e prepotentemente affacciatesi sull’Italia degli anni ’60. La classe è il nemico, perché a lei manca la coscienza. La dominante e squallida categoria dei perbenisti tuttofare, degli indigenti del non-scandalo: la borghesia, insomma, sempre prona alla legge economica, al prodotto, campione del potere e verga della moralità, sallustianamente simulatrice e dissimulatrice. È l’imperversare di questo rivitalizzato ceto sociale a contraddire la purezza, il candore di quell’Italia contadina, basso-proletaria ormai passata, obliata, né più mai (ri)attuabile. A Pasolini non rimane che combattere, gettando il suo corpo nella lotta, tutte le forze negative del moralismo ipocrita nazionale, riflesso dell’incapacità critica e della faciloneria più ignorante. Lotta che, purtroppo, pagò con la vita”.

Buona lettura o rilettura, e a domani con nuovi post, nuovi autori e nuovi testi!

Marco Marchi

Alla mia nazione. Pier Paolo Pasolini

VEDI I VIDEO “Alla mia nazione” di Pier Paolo Pasolini letta da Vittorio Gassman , Da “Il glicine” , Pasolini legge versi da “Poesia in forma di rosa” , “Io so” , “Che paese meraviglioso era l’Italia…” letto da Toni Servillo , Teaser trailer del film “La macchinazione” di David Grieco, con Massimo Ranieri

Firenze, 5 marzo 2020 – Ricordando che il 5 marzo 1922 nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini.

All’altezza cronologica della Religione del mio tempo – raccolta a cui i versi di Alla mia nazione appartengono – , il glicine dell’omonima poesia non è più per Pasolini l’emblema di una pura esistenza perennemente rinnovantesi come all’epoca dell’Usignolo della Chiesa Cattolica, ma il simbolo di una verginità defunta: la resistente restituzione lirica di una consapevolezza oltranzistica, semmai, da mistico-razionalista smentito. La poesia si prepara in realtà ad adattarsi agli esiti rigorosamente maturati all’interno del proprio esercizio: si appresta a subire il crollo, a sopravvivere, simulare, mimetizzarsi, pragmatizzarsi e magmatizzarsi, nascondersi – lei mito sfuggente, intonazione, ma anche etimologicamente vento che soffia dall’esterno – in altre «forme della poesia».

Poesia in forma di rosa, intitolerà fra poco il poeta. Andar per fiori all’Inferno: nella Divina Mimesis (con umili «fiorucci», danteschi «fioretti», «fiorellini», con un pascoliano prato del cosmo incontrato sul cammino) e in Petrolio (dove il glicine, con il suo profumo da rappresentazione sinestetica di una realtà lontana dalla realtà, farà testuali apparizioni). Come per diffrazione – poesia del sesso in tempi di esaurimento repressivo e di incipiente permissivismo sociale – sboccia in ambito cinematografico Il fiore delle Mille e una notte.

Ma poi verrà l’«abiura dalla Trilogia della vita», si stabilizzeranno una volta per sempre toni espressivi terminali da Tetro entusiasmo, su un «cuore» ideologicamente accordabile in chiave marxista con Gramsci prevarranno le «buie viscere» contro di lui. Pasolini in Petrolio scenderà davvero all’Inferno, come nella vita e come in molte delle sue sterminate letture, dei suoi grandi riscontri letterari anche in Descrizioni di descrizioni saggisticamente convocati e resi efficienti: da Strindberg a Sade (Salò!), da Dostoevskij a Dante, secondo ulteriori iridescenze, adesso, di un Dante interpretato come grande veicolatore garante della possibilità autoanalitica estrema in termini di poesia, se in chi elabora Petrolio – lo ha notato con pertinenza Aurelio Roncaglia – «l’impulso più profondo non è di tipo oggettivo-narrativo, bensì d’intima ricerca, dunque inclinato a un istintivo lirismo». Pasolini affonda il bisturi nel proprio corpo, fa della sua affilata ed oltranzistica «autoanalisi» un’«autopsia».

Dante come sperimentazione del morire, del vedere e comprendere attraverso la morte. Lo scandalo si rinnova, un’eretica, equivocata e inaccettata «forza del passato» si estremizza in forma linguistica, in struttura, in genere letterario nuovo ambiziosamente intentato su base culturalistica dispiegata e di nuovo contaminata (dalle Argonautiche di Apollonio Rodio a L’écriture et l’expérience des limites di Philippe Sollers); ma i termini essenziali del confronto si ripropongono pressoché immutati, tra pressanti richieste ideologiche di pronunciamento e di giudizio ed esigenze di testimonianza poetica, di intransigente, finale e ultramondana autorappresentazione conoscitiva in cifra di obbedienza poetica.

Un sogno visionario di bolge e gironi in cui il capire è «gioiosa cognizione del capire», dove i personaggi pare che parlino una lingua «meravigliosa», più che mai poeticamente risonante e lucente, «in versi o in musica». E non si può non ripensare, a integrazione del discorso e per contrasto, magari assieme ai versi accesamente polemici di Alla mia nazione che oggi si propongono, ai versi del Glicine che già ad apertura degli anni Sessanta, all’interno di una raccolta in cui il tema civile, appunto, al pari che nelle Ceneri di Gramsci esigeva risposte e ancora potentemente si stagliava,  dicevano: «tra il corpo e la storia, c’è questa / musicalità che stona, / stupenda, in cui ciò che è finito / e ciò che comincia è uguale, e resta / tale nei secoli».

Marco Marchi

Alla mia nazione

Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico,
        ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
        governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
        funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
        Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
        tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
        proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
        che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.

Pier Paolo Pasolini 

(da La religione del mio tempo, 1961, ora in Tutte le poesie)

I VOSTRI COMMENTI

Antonietta Puri
Come non rimanere stupefatti di fronte alla sempre “fresca” attualità di Pasolini, conoscitore, profeta e poeta – perché poeta essenzialmente è, di ieri, di oggi e di domani-…?. Di fronte a questo epigramma sull’Italia – che mai viene chiamata col suo nome, ma sempre come “nazione”, dando a questo apellativo una connotazione di “nascita” più che quella di “terra dei padri”, come a ogni italiano che l’ami verrebbe il desiderio di chiamare la propria terra – si resta sorpresi per la sua incredibile attualità, per come la tentazione di disconoscere la nostra nazione aumenti con gli anni in maniera esponenziale e per come , oggi più che mai, comprendiamo come il popolo italiano sia purtroppo ancora un insieme troppo eterogeneo di persone nate entro certi confini (e li difendano con le unghie e coi denti, erigendo muri ideologici e razzisti) piuttosto che gente che abbia maturato e sia cresciuta, condividendo un senso di appartenenza. E’ pur vero che Pasolini sembra voler parafrasare Leopardi quando questi nella sua opera “Dei costumi degl’italiani” ci definisce crudeli, cinici, incapaci di autentica moralità, indifferenti a tutto, privi di amor proprio e senso dell’onore…; ed è pure vero che noi italiani siamo portati verso quella che Gadda chiamava la “porca rogna del denigramento di noi stessi” – e credo che entrambi avessero buone ragioni per affermarlo – , ma escludo che Pasolini, parlando del rifiuto verso la propria nazione, accusandola di essere il ricettacolo di figure turpi e disgustose, intenda disprezzare e insultare la patria, ma credo piuttosto che voglia denunciare – allora come ora (fatti gli ovvi distinguo) – una classe dominante guasta, falsa, farisaica e spietata e quindi …”sprofondino” nel mare che circonda la nostra penisola quelle persone che, ieri come oggi, resero e rendono la nostra nazione indegna di stima!

tristan51
Un classico ineludibile della letteratura italiana del secondo Niovecento. Un intellettuale come oggi non ce ne sono, un artista poliedrico e multiforme alla base del cui insanziato experiri c’è sempre, costantemente avvertita ed esaudita, la chiamata della poesia. Pasolini, in qualsiasi modo, poeta sempre, e a livelli spesso altissimi.

Maria Grazia Ferraris
Davvero l’Italia contemporanea ha avuto in Pasolini il suo poeta civile, offeso e rabbioso, testimone della corruzione, dell’imborghesimento, l’omologazione materialista contro cui lancia le sue invettive implacabili, quasi disperate. La sua prima “eresia”, sta nella sua capacità, cuore e visceri insieme, di scandalizzarsi della realtà degli uomini e delle loro cose, anche quando razionalmente ne rinnega l’adultità, la coerenza, la (pseudo) religiosità . La cultura piccolo-borghese denunciata con veemenza… è sempre corruttrice ed impura, cultura da caserma, da seminario, una spiaggia libera, un casino! Il rimpianto di quello che fu “una nazione vivente, una nazione europea” lo spinge a desiderare la definitiva perdita di questa realtà storica incosciente nazione, senza alcuna possibilità di riscatto: “Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.”- è l’invito appassionato finale. Può essere considerato in questa sua forza di denuncia Poeta e uomo della contraddizione,ma anche un indagatore “religioso” dell’anima arcaica, incontaminata, un difensore di ogni diversità, un implacabile moralista, un singolare profeta del passato e delle origini…, rimane di una forza di denuncia civile sempre attuale.

Damiano Malabaila
“Mi domando che madri avete avuto”… PPP è (anche) uno dei più grandi poeti civili italiani. Si muove, con la suaintelligenza lacerante, al di là delle ideologie costituite, scava con impietoso amore nel “guzzabuglio” della natura umana e traduce tutto quello che tocca in poesia: in una profonda, scandalosa bellezza.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Impegno politico e sociale: un binomio presente nella poesia di Pasolini fin dai versi friulani di Dov’è la mia patria, la sua seconda raccolta, edita nel 1949, e portato avanti con disperata e vitale determinazione attraverso tutta la sua opera, poetica e no. Nei versi affilati di questo epigramma – non canzone! – la visione sconsolata e indignata di un Paese di cui Pier Paolo coglie, con lungimiranza straordinaria, – siamo agli inizi degli anni ’60! – la decadenza morale, la perdita di identità, l’assenza di una dignità che meriti il nome sacro e puro di Patria, nel senso stretto ed etimologico del termine. Un’invettiva appassionata, un’imprecazione finale che si riallaccia direttamente alla poesia civile del Sommo Poeta rivendicando così alla propria poesia civile la dignità e la sacralità dell’impegno civile vissuto come religione. Poesia civile e vita vissuta, dunque, contraddittoriamente e tormentosamente intrecciate, con disperata vitalità, ben riassunte in questo verso friulano del ’49: “ La me patria a è ta la me sèit di amòur» [la mia patria è nella mia sete di amore]”.

Arianna Capirossi
In occasione del compleanno di Pier Paolo Pasolini, vorrei ricordare l’importanza cruciale della sua figura di intellettuale e della sua produzione artistica per la comprensione dell’evoluzione socio-culturale dell’Italia del Novecento. Pasolini dovrebbe essere il primo autore, e non l’ultimo, ad essere studiato a scuola (mentre tante volte non è nemmeno compreso nei programmi): i ragazzi avrebbero le idee più chiare sul presente che stanno vivendo. Non a caso, Pasolini è colui che mi ha convinto a dedicarmi allo studio della letteratura, da intendersi non solo come espressione artistica, ma anche come testimonianza storica e riflessione filosofica.

Antonella Bottari
“Alla mia nazione” e riscoprirsi figlio. Di un luogo del quale tutti noi siamo figli ma che non viene mai appellato col nome caro al cuore, Italia, tantomeno col più fulgido, Patria. Il conato di disgusto è tanto più potente quanto più forte vibra il sentimento per un ideale vilipeso e calpestato. Il poeta bussa veemente alla finestra della nostra coscienza civile, con versi ardenti che tagliano e staffilano ferocemente.

Isola Difederigo
Ma di quale padre, se non di Dante, avrebbe potuto riconoscersi figlio chi ha precocemente sentito la Poesia e il suo avvolgente amor di madre come sua unica vera patria? Ed eccolo il poeta civile, acuminato e dantesco, leggere la storia dell’Italia del suo tempo fra tetro entusiasmo e furor sacro: quello che anche oggi dovremmo chiedere ai nostri poeti, e che più ci manca.

Duccio Mugnai
Disarmante. A parte la capacità di saper leggere i segni della storia e della società, Pasolini sa anche avvolgersi di “inferi”, poteri ctoni, presenze inquietanti. Così, la lunga lista delle qualità molteplici, spazio-temporali di “milioni di piccoli borghesi come milioni di porci” ci parla ancora della grettezza e della mediocrità del “bel paese”, di cui il furore accusatore non risparmia la supponente pretesa di superiorità e l’ipocrita perbenismo, incapace di cogliere, davvero, e dibattere le tematiche del mondo.

Matteo Mazzone
La patria è da sempre stata utilizzata come analisi stereometrica della società, in primis, e della civiltà, in secundis. Il sentimento di Pasolini verso la nozione di nazione è notevolmente cambiato nel suo iter scrittorio: se agli inizi della sua sperimentazione poetica egli si lasciava trasportare dalla “rosada” dei contadini friuliani, nuova “élite” anti-capitalistica a cui rivolgersi – espressione di una semiotica verginità e di una casto significante – progressivamente l’idea e l’ideale di nazione abitata da uomini puri in quanto creature etimologicamente innocenti – cioè non in grado di nuocere – si abbuia in conseguenza dello sviluppo neocapitalistico, conformistico e conformista: è quest’ultimo, un calderone, un guazzabuglio di benesseri effimeri, di gratuite e politicizzate spettacolarizzazioni borghesemente sconce e prepotentemente affacciatesi sull’Italia degli anni ’60. La classe è il nemico, perché a lei manca la coscienza. La dominante e squallida categoria dei perbenisti tuttofare, degli indigenti del non-scandalo: la borghesia, insomma, sempre prona alla legge economica, al prodotto, campione del potere e verga della moralità, sallustianamente simulatrice e dissimulatrice. È l’imperversare di questo rivitalizzato ceto sociale a contraddire la purezza, il candore di quell’Italia contadina, basso-proletaria ormai passata, obliata, né più mai (ri)attuabile. A Pasolini non rimane che combattere, gettando il suo corpo nella lotta, tutte le forze negative del moralismo ipocrita nazionale, riflesso dell’incapacità critica e della faciloneria più ignorante. Lotta che, purtroppo, pagò con la vita.

Roberta MaestrelliBerti
Amore e rabbia nelle sue parole, per una terra che “è stata” grande e che affoga nella corruzione: “Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti…”.

Giulia Bagnoli
“La mia patria è indegna di stima e merita di sprofondare nel suo mare: ma il vero significato è che, a essere indegna di stima, a meritare di sprofondare nel mare, è la borghesia reazionaria della mia patria, cioè la mia patria intesa come sede di una classe dominante benpensante, ipocrita e disumana” (Pasolini) Immenso Pasolini in questo testo di un’attualità disarmante.

Lorenzo Dini
A dare ragione dell’inesausto sperimentalismo pasoliniano, da narratore a cineasta, da scrittore di opere teatrali a giornalista, è l’attività poetica: come acutamente ha notato Enzo Siciliano: “il nodo pasoliniano si scioglie con la poesia che l’avviluppa”. È il poeta a farsi investigatore dei mali della società a lui contemporanea, a denunciarne la “malattia borghese” come emerge chiaramente dalla poesia: quei “milioni di piccoli borghesi come milioni di porci” saranno successivamente protagonisti di altre opere, come in Teorema. Questa dolorosa analisi, Pasolini ha del resto confessato più volte la repulsione causata dall’affondare il bisturi nel copro decomposto della borghesia, questa meticolosa anamnesi si fa atto di dolore dei nostri tempi, attraverso il filtro poeticamente compartecipato di uno dei più importanti lirici del nostro Novecento.

Cesare Blanc
“Avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi”… Meravigliosa! Ispiratore del popolo, luce profetica stile Dante e Hugo, che chiamò “Petit” quel Napoleone ritenuto non degno di portare il nome dello zio. Dante e Hugo, innamorati in ogni fibra del loro corpo del proprio Paese, della propria Terra; irati all’idea che venisse delegittimata. Leggendola ho pensato, anche se diverse nella forma, a “La grande proletaria si è mossa”, dove Pascoli scrive provocante “Si diceva: – Dante? Ma voi siete un popolo d’analfabeti! Colombo? Ma la vostra è l’onorata società della camorra e della mano nera! Garibaldi? Ma il vostro esercito s’è fatto vincere e annientare da africani scalzi! Viva Menelik!”. Altra elegia di inestimabile valore alla nostra terra italica, “alla patria nobilissima su tutte le altre” che però urge di un riscatto morale ed etico non indifferente, di auto-consapevolezza e giudizio. E con parole più amare, cariche di quella sana rabbia e voglia di reagire che deve trovare un pugile, esausto all’ultimo round, di fronte al rischio di un knock-out, Pasolini da buon coach, dà la giusta strigliata al suo atleta, affinché come una fenice, rinasca dalle proprie ceneri.
In conclusione, voglio rimarcare come, secondo me, si mantenga ancora molto attuale con l’avversativa “ma nazione vivente, ma nazione europea”. “Vivente”, in un periodo storico dove come popolo Italiano siamo chiamati a reagire di fronte all’attuale situazione medico-sanitaria, che ahinoi, è diventata ben presto una problematica globale. In concomitanza con la furbesca bramosia egemonica perpetrata da altri paesi europei, i quali nascondono i numeri dei contagiati per preservare la propria economia, mentre quella altrui viene resa vittima di sciacallaggio mediatico a suon di linguaggio sensazionalistico e diffusore di panico. “Europea”, perché in risposta al separatismo diffusosi su scala globale, si possa ricordare come l’Italia, in qualità di Paese fondatore dell’Unione Europea, sia in grado e possa riprendersi il posto che merita al fianco degli altri amici europei. Questo, a dispetto di tutti i nostri problemi socio-economici che sarebbe l’ora i politici indirizzassero con ferma efficacia, ci dovrebbe rammentare quell’orgoglio sano e genuino di essere Italiani e, come tali, la necessità di essere una cosa che non siamo mai stati: un popolo unito. Vivere all’estero ha rinforzato questo orgoglio positivo in me. Con questa forza ritrovata nel cuore, vorrei tornare a casa ed avere le giuste opportunità lavorative ed economiche che, come molti altri, ho trovato fuori quella che Bauman (2003) definisce “casa”.

Giacomo Trinci
Il dire della poesia, in questa fase del percorso di Pasolini, è come scagliato nel dirupo della storia, nel magma di una realtà fangosa. Ma attenzione, in questa poesia “Alla mia nazione” la gettata sintattica sprofonda la lingua attraverso l’ira e il furore in quel residuo di canto rovesciato tra due parole perdute: “male-madre”; la sconnessione tra suono e senso, fra intelligenza e orecchio che ha caratterizzato l’etimo da cui è nato il canto civile del Pasolini delle “Ceneri” e della “Religione del mio tempo”, e che ha caratterizzato la sua musica della sintassi, trova qui una sintesi fulminante nel distico finale di questa poesia, dove, appunto mare e madre, rovesciano la loro traccia melodica in uno sprofondo e un’apocalisse ghiacciata. L’ombra antica del canto è qui annegata nel furore ragionato e ivi spenta.

Chiara Scidone
Un grande augurio a Pasolini! In “Alla mia nazione”, da bravo osservatore, Pasolini denuncia la società borghese del tempo, osservandola mentre si distrugge e mentre le cose più importanti perdono la loro importanza. Una personalità veramente interessante, peccato non ci siano più personaggi come lui al giorno d’oggi.

Greta Fantechi
Una vox clamantis in deserto quella di Pasolini, contemporaneo prima di ogni tempo; una presenza nell’assenza, che riecheggia ancora oggi, a distanza di anni, nel mutismo che ha posto ormai sotto assedio la voce delle nostre coscienze.

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