Pubblicato il 2024-05-31T03:00:35

‘Notizie di poesia’. Maggio, il post del mese (con i vostri commenti)

Firenze, 31 maggio 2024 – Primo, secondo e terzo poeta sul podio con punteggi distanziati di strettissima misura. A maggio vince alla fine una strana coppia (strana fino a un certo punto, però, trattandosi di due veri poeti, il più giovane dei quali impensabile al momento del suo debutto nell’agone letterario senza l’esempio appreso ed […]

di Marco Marchi

Firenze, 31 maggio 2024 – Primo, secondo e terzo poeta sul podio con punteggi distanziati di strettissima misura. A maggio vince alla fine una strana coppia (strana fino a un certo punto, però, trattandosi di due veri poeti, il più giovane dei quali impensabile al momento del suo debutto nell’agone letterario senza l’esempio appreso ed efficacemente contraddetto del più vecchio: Gabriele d’Annunzio ed Eugenio Montale, sul gradino più alto con il post D’Annunzio, Montale e il meriggio e con uno stimolante confronto, dunque, di due diversissime superpoesie su tema naturale. Argento, a ruota, per  la validissima Patrizia Valduga, con uno dei suoi ispirati sonetti tratto da Medicamenta e altri medicamenta (Auguri s Patrizia Valduga). Bronzo di nuovo a ruota, infine, per Carlo Betocchi con la sua bellissima prosa sul fatto ispirativo presente in Rime come fiori, rime come colori. Carlo Betocchi.

Tra i vostri commenti su D’Annunzio e Montale segnaliamo quelli di Giacomo Trinci, Maria Grazia Ferraris e Arianna Capirossi. Rispettivamente: “Musica e contro-musica, si potrebbe dire; al sinfonismo massimalisticamente teso in torsioni wagneriane di D’Annunzio, l’assorto debussysmo del Montale di “meriggiare”. Come avviene per le contrapposizioni nette, a distanza di tempo lo sguardo postumo le tiene insieme, le lega in armonica alternanza, come due facce di una sfolgorante medaglia, in lingua densa e netta. Emozionante leggerle insieme, così! Come emerse e deterse dai reciproci contesti. Marchi ha avuto la grande sensibilità di ascolto per unirle in una proposta di lettura”; “Un tema comune a due Autori celeberrimi: la pienezza dell’estate in un luogo noto e frequentato: la Versilia, alla foce dell’Arno, il paesaggio marino, in entrambi i casi. Atmosfera privilegiata con enfasi descrittiva e con straordinari fonosimbolismi dal D’Annunzio, decentrata, spostata quasi provocatoriamente, disincantata, a risposta, nell’orto ligure desolato quella di Montale. L’atmosfera dannunziana è quella mimetica, capace di esprimere la corrispondenza tra parole e cose come è caratteristico nell’Alcyone: mare-foce – sole-vento- sabbia-silenzio che ispirano panicamente il rapporto con la natura, come nella lezione accettata del miglior simbolismo, fino a che il poeta si dissolve nell’universo in una esperienza fuori dal tempo, nello smarrimento dell’identità umana in una esistenza atemporale. Emerge invece la volontà di rottura del simbolo in Montale: il paesaggio desolato -il rovente muro d’orto- il sole che abbaglia- comunica tutto il rapporto di divisione, di rifiuto del panismo tra la natura ‘sconcorde’ e il poeta, che tende a nascondersi negli infiniti (meriggiare, ascoltare, spiare, osservare, sentire) che si incalzano, volutamente neutri, mentre la musica perde la sua contabilità e melodia naturale e diventa sillaba storta. Senza saper cogliere il mistero della natura, nell’inno dannunziano, rivelando le reali disarmonie, Montale richiama i suoni dissonanti dodecafonici della perdita dell’elegia. E anche i temi comuni: mare- terra si definiscono nella loro lontananza concettuale del disincanto: la vitalità del paesaggio si decompone nel messaggio della negatività”: “Numerose le differenze tra il ‘Meriggio’ dannunziano e il ‘Meriggiare pallido e assorto’ montaliano. Per D’Annunzio, nel meriggio, il silenzio si eterna in una dimensione ieratica ove tutto è immoto. Per Montale, invece, il meriggio è animato da piccoli suoni e da alcuni movimenti, come quello del mare. Nel paesaggio dannunziano, al contrario, ‘grava / la bonaccia’. Ma la differenza principale tra le due sensibilità poetiche risiede nello status dell’io lirico. Nella poesia di D’Annunzio, il poeta, da osservatore, si tramuta egli stesso in Natura, anzi in Meriggio, investito da Estate: ‘L’Estate si matura / sul mio capo come un pomo / che promesso mi sia, / che cogliere io debba / con la mia mano…”‘. Proprio questa cerimonia di investitura segna il mutamento dendromorfico dell’io lirico. Nella poesia di Montale, invece, l’io lirico conserva fino all’ultimo la propria umana finitezza e la propria umana malinconia. Come in D’Annunzio, troviamo uno slancio d’elevazione verso l’alto; ma, per il poeta ligure, tale slancio non ha un approdo positivo, anzi porta a una scoperta dolorosa: la sommità dell’orizzonte umano è infatti dominata da ‘cocci aguzzi di bottiglia’. Per il poeta abruzzese, invece, lo slancio verso l’alto conduce a una compiuta trascendenza. Ma attenzione: ciò non comporta serenità, quanto piuttosto una distaccata austerità, che ben poco ha di umano. Montale riprende da D’Annunzio la minuziosa attenzione rivolta alla natura, nonché la tensione che sospinge l’uomo verso il calore e l’energia del sole, descrivendola con l’entusiastica (in senso etimologico) penna del poeta: tuttavia, mentre D’Annunzio parlava di sé e per sé, narrando il compimento della propria ovidiana metamorfosi in elementi di una natura divinizzata, Montale parla, attraverso di sé, della condizione di tutti gli uomini, i cui tentativi di trascendere sono costantemente frustrati dalla consapevolezza del ‘male di vivere’. Il componimento di D’Annunzio si potrebbe ben raffigurare con un mosaico aureo, le cui tessere d’oro rappresentano la radiosa luce estiva; quello di Montale, invece, attraverso il pennello d’un artista macchiaiolo, che, scandagliando la quotidianità”.

Ma bello, nella sua sinteticità, pure il commento di Duccio Mugnai: “Considero l’arte di D’Annunzio poesia allo stato ‘puro0. Niente è più inspiegabile del suo incanto istrionico metrico-fonetico, dove, molto spesso, i suoni onomatopeici tracimano dal comune senso razionale e banalmente quotidiano per una trasfigurazione della semantica in un cosmos musicale e attrattivo, consolidato su atmosfere sapientemente lusinganti il lettore. Del resto, Montale, alla fine della sua vita e produzione poetica, considerava ‘Meriggiare pallido e assorto’ come una banalità giovanile rispetto a tutto ciò che poi aveva costituito la sua ricerca e cristallizzazione lirica. E’ indubitabile, a questo livello, un grande studio e una elaborata gestione di modelli poetici già sperimentati e consolidati, naturalistici e sonori, ma l’occasione è ormai già tendenza da migliorare ed esplicitare, tanto che i “cocci aguzzi di bottiglia” cancellano violentemente ogni illusione e ti tagliano alla gola”.

Buona lettura e buoni ascolti nel segno dei due vincitori!

Marco Marchi

D’Annunzio, Montale e il meriggio

VEDI I VIDEO “Meriggio” di Gabriele d’Annunzio , … e “Meriggiare pallido e assorto” di Eugenio Montale letti da Roberto Herlitzka , “Meriggiare pallido e assorto” letto da Montale , “Il novilunio” di Gabriele d’Annunzio

Firenze, 8 maggio 2023 – Testi a fronte (e letture a fronte, volendo, per la voce dello stesso attore alle prese con autori diversi), affidando a questo confronto su tema meridiano un più generale confronto di poetiche e di linguaggi ad esse sottese.

Sta di fatto che senza la lezione linguistica e formale di Gabriele d’Annunzio (ma si pensi anche a Pascoli e allo stesso Carducci, parimenti conosciuti, assimilati e attraversati dal poeta venuto dopo) gli Ossi di seppia di Eugenio Montale (da cui il celeberrimo Meriggiare pallido e assorto, arretrabile per composizione al 1916, è tratto) non sarebbero stati quelli che oggi noi leggiamo e valutiamo in tutta la loro importanza storiografica. Ma una continuità di tipo linguistico-formale non implica necessariamente una continuità di tipo ideologico. Anzi…

Proprio nel 1925, l’anno di pubblicazione di Ossi di seppia, sul periodico torinese «Il Baretti», Montale lucidamente sosteneva in un suo scritto, rivendicando al proprio operato consapevolezze: «Lo stile, il famoso stile totale che non ci hanno dato i poeti dell’ultima illustre triade, malati di furori giacobini, superomismo, messianesimo e altre bacature, ci potrà forse venire da disincantati savi e avveduti, coscienti dei limiti e amanti in umiltà dell’arte loro più che per rifar la gente». Sicure prese d’atto e sicure prese di distanza di tipo ideologico, queste, che consapevolmente fondano la pronuncia di Ossi di seppia. Nasce così la poesia scabra ed essenziale dell’uomo che non può andarsene «sicuro», del «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco / lo dichiari», del «Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo».

Un esempio probante di quanto suggerito potrà scaturire dal confronto testuale odierno, instaurabile sulla base di una occasione analoga come quella di una fruizione meridiana e sulla base di un codificato e per suo conto già straordinarimente innovativo linguaggio poetico come quello che al poeta di Alcyone va riconosciuto: un linguaggio che già modernamente fornisce a Montale, a ben vedere, perfino una serie di diversamente funzionalizzabili soluzioni fonosimboliche aspre («E io sono nel fiore / della stiancia, nella scaglia / della pina, nella bacca, /del ginepro: io son nel fuco…») degne del suo prossimo, antieroico e a noi più consentaneo «meriggiare». Un «meriggiare» non  in faccia al mitico e letterariamente enfatizzabile Tirreno, ormai, ma tra i dimessi confini di un quotidiano e del tutto novecentesco orto ligure.

Marco Marchi 

Meriggio

A mezzo il giorno
sul Mare etrusco
pallido verdicante
come il dissepolto
bronzo dagli ipogei, grava
la bonaccia. Non bava
di vento intorno
alita. Non trema canna
su la solitaria
spiaggia aspra di rusco,
di ginepri arsi. Non suona
voce, se acolto.
Riga di vele in panna
verso Livorno
biancica. Pel chiaro
silenzio il Capo Corvo
l’isola del Faro
scorgo; e più lontane,
forme d’aria nell’aria,
l’isole del tuo sdegno,
o padre Dante,
la Capraia e la Gorgona.
Marmorea corona
di minaccevoli punte,
le grandi Alpi Apuane
regnano il regno amaro,
dal loro orgoglio assunte.

La foce è come salso
stagno. Del marin colore,
per mezzo alle capanne,
per entro alle reti
che pendono dalla croce
degli staggi, si tace.
Come il bronzo sepolcrale
pallida verdica in pace
quella che sorridea.
Quasi letèa,
obliviosa, eguale,
segno non mostra
di corrente, non ruga
d’aura. La fuga
delle due rive
si chiude come in un cerchio
di canne, che circonscrive
l’oblío silente; e le canne
non han susurri. Più foschi
i boschi di San Rossore
fan di sé cupa chiostra;
ma i più lontani,
verso il Gombo, verso il Serchio,
son quasi azzurri.
Dormono i Monti Pisani
coperti da inerti
cumuli di vapore.

Bonaccia, calura,
per ovunque silenzio.
L’Estate si matura
sul mio capo come un pomo
che promesso mi sia,
che cogliere io debba
con la mia mano,
che suggere io debba
con le mie labbra solo.
Perduta è ogni traccia
dell’uomo. Voce non suona,
se ascolto. Ogni duolo
umano m’abbandona.
Non ho più nome.
E sento che il mio vólto
s’indora dell’oro
meridiano,
e che la mia bionda
barba riluce
come la paglia marina;
sento che il lido rigato
con sì delicato
lavoro dell’onda
e dal vento è come
il mio palato, è come
il cavo della mia mano
ove il tatto s’affina.

E la mia forza supina
si stampa nell’arena,
diffondesi nel mare;
e il fiume è la mia vena,
il monte è la mia fronte,
la selva è la mia pube,
la nube è il mio sudore.
E io sono nel fiore
della stiancia, nella scaglia
della pina, nella bacca,
del ginepro: io son nel fuco,
nella paglia marina,
in ogni cosa esigua,
in ogni cosa immane,
nella sabbia contigua,
nelle vette lontane.
Ardo, riluco.
E non ho più nome.
E l’alpi e l’isole e i golfi
e i capi e i fari e i boschi
e le foci ch’io nomai
non han più l’usato nome
che suona in labbra umane.
Non ho più nome nè sorte
tra gli uomini; ma il mio nome
è Meriggio. In tutto io vivo
tacito come la Morte.

E la mia vita è divina.

Gabriele d’Annunzio

(da Alcyone, 1903)

Meriggiare pallido e assorto

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
s
chiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
s
piar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche. 

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
d
i cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
s
entire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Eugenio Montale

(da Ossi di seppia, 1925)

I VOSTRI COMMENTI

tristan51
Che bel confronto! Ricordandosi sempre quanto Gabriele d’Annunzio con la sua produzione poetica ha segnato l’evoluzione del nostro Novecento letterario.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Si confronta Montale con la poesia dannunziana, si contrappone ad essa, ma nel momento stesso in cui la presuppone le rende esplicitamente omaggio: dannunziano è infatti il tema, il lessico, persino il titolo della raccolta – “Ossi di seppia” – trae spunto da un celebre carme di Alcyone! Ma Montale da’ voce alla moderna inquietudine, al male di vivere dell’uomo contemporaneo che ha perduto ogni certezza, il poeta-vate che pure aveva pubblicato Alcyone solo venti anni prima e’ lontano come quei monti Pisani che scorge azzurrini in lontananza.

Angela per Antonella Bottari
Panismo e incomunicabilità, tutto nel medesimo spazio temporale, naturalistico, di un “Meriggio”; son D’ Annunzio e Montale nella lettura proposta oggi. D’Annunzio vive il senso panico della natura, nel vivere sensualmente e istintivamente il “Meriggio”, ambientato in un grande silenzio che fa risaltare la sensibilità uditiva e visiva. Il suo “Io” lascia il corpo, il tempo e tutto ciò che è umano pervenendo a uno stato di “panica dolcezza”. Il senso di fuga del poeta dalla vita umana, è espresso perfettamente dalla musicalità dei versi e reso a noi sensibilmente come voce eterea del silenzio: “Perduta è ogni traccia dell’uomo. Voce non suona, se ascolto. Ogni duolo umano m’abbandona…”. Un linguaggio altrettanto musicale e saliente è proposto oggi alla nostra riflessione nel confronto con i versi dannunziani; Montale e il suo “Meriggio”. Si fa anche qui grande uso di effetti sonori onde attrarre circolarmente il lettore in una spirale d’ombre contrapposte alla luce, asprezza dell’ ambiente interiore contro un mondo che placido attende, di esser visto, di esser stretto in un universale anelito d’amore; un mondo che però rifiuta l’essenza più intima dell’ uomo e lo lascia in solitaria perenne attesa dietro un muro costellato di ardenti frammenti che tagliano il fiato. Non si va oltre, se esiste un mondo non è per l’uomo. Montale, infatti, di fronte al “meriggio” non prova sensazioni positive e di serenità, ma inquietudine di fronte alla consapevolezza dell’isolamento a cui si è destinati e all’impossibilità di andare oltre; la stessa ambientazione dello spazio ristretto è rappresentazione della desolazione dell’esistenza umana e la poesia è tutto un rimando alla solitudine: muri, orti e confini invalicabili che hanno l’effetto di isolare la persona. Il muro, dunque, non consente di trascendere e tutta la poesia è un’acquisizione di consapevolezza sull’impossibilità dell’uomo di andare al di là. Amara, dolorosa consapevolezza senza i languori dannunziani, senza fuga da sé, senza immersione nel grande mare della vita intesa come accesso a potenti e irrinunciabili sensazioni. Piuttosto una severa quanto consapevole coscienza del mondo e di un sé che non hanno altro spazio che un fazzoletto di terra, di là dal muro.

Antonietta Puri
“Alcyone” non è una semplice raccolta di poesie, ma è forse il vertice toccato da D’Annunzio nell’unione delle sue doti: il senso estetico e la perizia tecnica; è il libro della natura che il Vate celebra nei suoi molteplici aspetti, in una sinfonia di immagini, di colori e di suoni che si inseguono e si susseguono in una ideale unità. In esso, “Meriggio” è probabilmente la lirica maggiormente distintiva della posizione dannunziana per la quale il poeta, accentuando la dimensione istintiva e sensoriale , crea una comunione con la natura, spiritualizzandola e trasfigurandola, nel trasforderle la propria anima. In un pomeriggio estivo di opprimente calura, su un mare di un’ immobilità quasi ieratica, in silenziosa solennità, il sole trionfa nell’attimo di sfolgorante eternità in cui il poeta, perdendo ogni traccia di individualità umana, avverte il compenetrarsi tra la componente umana che è in lui e tutti gli elementi dell’universo nel suo perpetuo fluire: è l’apoteosi pagana della natura, del corpo e del godimento dei sensi. Nella lirica di Montale, che per essere una delle prime da lui composte, contiene già quel linguaggio nuovo, i moduli stilistici ruvidi e asciutti e una visione del mondo cui il poeta rimarrà sempre fedele, confermando una continuità coerente con il proprio sentire, c’è un altro “Meriggiare…”, in cui, come in D’Annunzio, i versi traducono in modo vigoroso il senso di potenza della piena estate; un’estate però che arde e consuma, e questo bruciare echeggia nella secchezza dei rumori naturali: versione sonora di uno stato d’animo che non gode del fulgore della natura al suo culmine, ma che rimarca un senso desolato della vita che, nella sua assurdità, rimanda alla consapevolezza di un’arida solitudine. Un “Meriggio” dannunziano, momento di ebbrezza del genio creativo che percepisce l’attimo in cui la natura diventa senso umano, mentre quest’ultimo si fa palpito della natura; un “Meriggiare…” montaliano, metafora di una vita che altro non è se non costeggiare un alto muro invalicabile, perché irto di schegge di vetro. Due visioni diverse, due splendide poesie!

Maria Grazia Ferraris
Un tema comune a due Autori celeberrimi: la pienezza dell’estate in un luogo noto e frequentato: la Versilia, alla foce dell’Arno, il paesaggio marino, in entrambi i casi. Atmosfera privilegiata con enfasi descrittiva e con straordinari fonosimbolismi dal D’Annunzio, decentrata, spostata quasi provocatoriamente, disincantata, a risposta, nell’orto ligure desolato quella di Montale. L’atmosfera dannunziana è quella mimetica, capace di esprimere la corrispondenza tra parole e cose come è caratteristico nell’Alcyone: mare- foce- sole- vento- sabbia-silenzio che ispirano panicamente il rapporto con la natura, come nella lezione accettata del miglior simbolismo, fino a che il poeta si dissolve nell’universo in una esperienza fuori dal tempo, nello smarrimento dell’identità umana in una esistenza atemporale. Emerge invece la volontà di rottura del simbolo in Montale: il paesaggio desolato -il rovente muro d’orto- il sole che abbaglia- comunica tutto il rapporto di divisione, di rifiuto del panismo tra la natura “ sconcorde” e il poeta, che tende a nascondersi negli infiniti (meriggiare, ascoltare, spiare, osservare, sentire) che si incalzano, volutamente neutri, mentre la musica perde la sua contabilità e melodia naturale e diventa sillaba storta. Senza saper cogliere il mistero della natura, nell’inno dannunziano, rivelando le reali disarmonie, Montale richiama i suoni dissonanti dodecafonici della perdita dell’elegia. E anche i temi comuni: mare- terra si definiscono nella loro lontananza concettuale del disincanto: la vitalità del paesaggio si decompone nel messaggio della negatività.

Ferruccio Palmucci
Due sensibilità assai diverse, quelle di D’annunzio e Montale, le cui immagini poetiche toccano due diverse corde del cuore. Il meriggio seduce il cantore di “Alcyone” che si abbandona al suo dolce sopore dalle rive del Tirreno, in Toscana. Lentamente nel poeta avviene una metamorfosi che lo spersonalizza. “Non ho più nome.” la natura d’intorno, in quell’ora stregata, lo attira a sé irresistibilmente. “il mio volto s’indora dell’oro meridiano.” Il richiamo è così forte che, alla fine, l’immedesimazione è totale, panica. “Il fiume è la mia vena …Io sono nel fuco, nella paglia marina, , in ogni cosa esigua, in ogni cosa immane. In tutto io vivo tacito come la Morte.” La coscienza si annulla fondendosi con l’anima della natura, dove la morte terrena del singolo “vive” nella totalità dell’Essere. Questo è D’annunzio, la cui poesia, coerentemente con la sua storia personale, fa (o vuole fare) della vita un’opera d’arte segnata dalla bellezza, da un estetismo vagamente ispirato al superuomo nicciano, dal piacere, dalla sensualità dell’abbraccio panteistico.. Al contrario, Montale, si incammina nell’ora più torpida e calda, pensosamente, “lungo un rovente muro d’orto.” Conosce bene la condizione esistenziale dell’uomo. Pensa che “per i più non sia salvezza.” L’illusione non soccorre, né giovano le memorie eroiche e auliche; piuttosto lo colpiscono le immagini del “male di vivere” quali “il rivo strozzato … la foglia accartocciata … il cavallo stramazzato.” Il meriggio mostra al poeta i segni di una natura che, seppur varia e vitale, non crea sussulti dell’anima, non è lirica, ma rude, aspra, interessata a tessere l’inutile trama dell’indifferenza e del nonsenso di cui è simbolo l’andirivieni di “rosse formiche ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano/ a sommo di minuscole biche”, operosità ripetitiva che richiama la condizione alienante del lavoro umano. Un barlume giunge dal “palpitare lontano di scaglie di mare, ” ma, laddove la luce è più forte, non lo è per illuminare “da ogni lato l’animo nostro informe”, non per farlo risplendere “come un croco/ perduto in mezzo a un polveroso prato.” Lo è per diventare un “sole che abbaglia”, e che accompagna la solitaria fatica di risalire ” una muraglia” il cui al di là, semmai nascondesse una qualche salvezza, sarebbe vietato agli uomini dalla presenza di “cocci aguzzi di bottiglia.”

Chiara Scidone
Lo stesso tema, due epoche diverse. Montale fa un omaggio a D’annunzio e allo stesso tempo vi si contrappone. Il meriggio di Montale è costituito da tanti particolari: dai rumori delle serpi, dei merli ma anche dal nulla e dalla solitudine che si nascondono dietro all’impossibilità dell’uomo di vivere, di scavalcare un muro invalicabile con i cocci di bottiglia alla sommità. Il “muro” è il limite dell’uomo, così la sua vita diventa priva di senso. Invece il meriggio D’annunziano è caratterizzato dal silenzio e da una descrizione minuziosa della natura. Il poeta, diventa parte integrante di essa e riesce a percepire una sensazione di infinito. E così “Ogni traccia di uomo è perduta”.

Roberta Maestrelli Berti
Per come io le sento, Montale descrive, dipinge, ammira la natura, ma non si ditacca dai travagli della vita. D’Annunzio si immerge, si annienta, svanisce nell’armonia che dà oblio.

Maria Antonietta Rauti
Un bellissimo confronto descrittivo-sensoriale, azzarderei… l’ascolto dannunziano echeggia di strofa in strofa e diventa rimbombo divino, la sua penna. dipinge d’inchiostro il tutto che diviene Arte. Parimenti in Montale ecco che il Meriggio accosta il pensiero dell’umano sentire, trasportandolo sul Travaglio dell’esistenza sofferta, ma appunto per questo pienamente viva

Giacomo Trinci
Musica e contro-musica, si potrebbe dire; al sinfonismo massimalisticamente teso in torsioni wagneriane di D’Annunzio, l’assorto debussysmo del Montale di “meriggiare”. Come avviene per le contrapposizioni nette, a distanza di tempo lo sguardo postumo le tiene insieme, le lega in armonica alternanza, come due facce di una sfolgorante medaglia, in lingua densa e netta. Emozionante leggerle insieme, così! Come emerse e deterse dai reciproci contesti. Marchi ha avuto la grande sensibilità di ascolto per unirle in una proposta di lettura.

Duccio Mugnai
Considero l’arte di D’Annunzio poesia allo stato “puro”. Niente è più inspiegabile del suo incanto istrionico metrico-fonetico, dove, molto spesso, i suoni onomatopeici tracimano dal comune senso razionale e banalmente quotidiano per una trasfigurazione della semantica in un cosmos musicale e attrattivo, consolidato su atmosfere sapientemente lusinganti il lettore. Del resto, Montale, alla fine della sua vita e produzione poetica, considerava “Meriggiare pallido e assorto” come una banalità giovanile rispetto a tutto ciò che poi aveva costituito la sua ricerca e cristallizzazione lirica. E’ indubitabile, a questo livello, un grande studio e una elaborata gestione di modelli poetici già sperimentati e consolidati, naturalistici e sonori, ma l’occasione è ormai già tendenza da migliorare ed esplicitare, tanto che i “cocci aguzzi di bottiglia” cancellano violentemente ogni illusione e ti tagliano alla gola.

Arianna Capirossi
Numerose le differenze tra il “Meriggio” dannunziano e il “Meriggiare pallido e assorto” montaliano. Per D’Annunzio, nel meriggio, il silenzio si eterna in una dimensione ieratica ove tutto è immoto. Per Montale, invece, il meriggio è animato da piccoli suoni e da alcuni movimenti, come quello del mare. Nel paesaggio dannunziano, al contrario, “grava / la bonaccia”. Ma la differenza principale tra le due sensibilità poetiche risiede nello status dell’io lirico. Nella poesia di D’Annunzio, il poeta, da osservatore, si tramuta egli stesso in Natura, anzi in Meriggio, investito da Estate: “L’Estate si matura / sul mio capo come un pomo / che promesso mi sia, / che cogliere io debba / con la mia mano…”. Proprio questa cerimonia di investitura segna il mutamento dendromorfico dell’io lirico. Nella poesia di Montale, invece, l’io lirico conserva fino all’ultimo la propria umana finitezza e la propria umana malinconia. Come in D’Annunzio, troviamo uno slancio d’elevazione verso l’alto; ma, per il poeta ligure, tale slancio non ha un approdo positivo, anzi porta a una scoperta dolorosa: la sommità dell’orizzonte umano è infatti dominata da “cocci aguzzi di bottiglia”. Per il poeta abruzzese, invece, lo slancio verso l’alto conduce a una compiuta trascendenza. Ma attenzione: ciò non comporta serenità, quanto piuttosto una distaccata austerità, che ben poco ha di umano. Montale riprende da D’Annunzio la minuziosa attenzione rivolta alla natura, nonché la tensione che sospinge l’uomo verso il calore e l’energia del sole, descrivendola con l’entusiastica (in senso etimologico) penna del poeta: tuttavia, mentre D’Annunzio parlava di sé e per sé, narrando il compimento della propria ovidiana metamorfosi in elementi di una natura divinizzata, Montale parla, attraverso di sé, della condizione di tutti gli uomini, i cui tentativi di trascendere sono costantemente frustrati dalla consapevolezza del “male di vivere”. Il componimento di D’Annunzio si potrebbe ben raffigurare con un mosaico aureo, le cui tessere d’oro rappresentano la radiosa luce estiva; quello di Montale, invece, attraverso il pennello d’un artista macchiaiolo, che, scandagliando la quotidianità umana, ne rileva i contrasti tra le zone di luminosità ardente e quelle di fredda oscurità.

Paolo Parrini
La musicalità dannunziana è sublime, bellissimo questo confronto diretto tra i due meriggi, memorabile quello montaliano, che sovviene ricordi di meriggi nostrali, nelle campagne toscane, certo meno secche e brulle, ma altrettanto arse dal sole forte delle estati.