Maria Grazia Ferraris
Un tema comune a due Autori celeberrimi: la pienezza dell’estate in un luogo noto e frequentato: la Versilia, alla foce dell’Arno, il paesaggio marino, in entrambi i casi. Atmosfera privilegiata con enfasi descrittiva e con straordinari fonosimbolismi dal D’Annunzio, decentrata, spostata quasi provocatoriamente, disincantata, a risposta, nell’orto ligure desolato quella di Montale. L’atmosfera dannunziana è quella mimetica, capace di esprimere la corrispondenza tra parole e cose come è caratteristico nell’Alcyone: mare- foce- sole- vento- sabbia-silenzio che ispirano panicamente il rapporto con la natura, come nella lezione accettata del miglior simbolismo, fino a che il poeta si dissolve nell’universo in una esperienza fuori dal tempo, nello smarrimento dell’identità umana in una esistenza atemporale. Emerge invece la volontà di rottura del simbolo in Montale: il paesaggio desolato -il rovente muro d’orto- il sole che abbaglia- comunica tutto il rapporto di divisione, di rifiuto del panismo tra la natura “ sconcorde” e il poeta, che tende a nascondersi negli infiniti (meriggiare, ascoltare, spiare, osservare, sentire) che si incalzano, volutamente neutri, mentre la musica perde la sua contabilità e melodia naturale e diventa sillaba storta. Senza saper cogliere il mistero della natura, nell’inno dannunziano, rivelando le reali disarmonie, Montale richiama i suoni dissonanti dodecafonici della perdita dell’elegia. E anche i temi comuni: mare- terra si definiscono nella loro lontananza concettuale del disincanto: la vitalità del paesaggio si decompone nel messaggio della negatività.
Ferruccio Palmucci
Due sensibilità assai diverse, quelle di D’annunzio e Montale, le cui immagini poetiche toccano due diverse corde del cuore. Il meriggio seduce il cantore di “Alcyone” che si abbandona al suo dolce sopore dalle rive del Tirreno, in Toscana. Lentamente nel poeta avviene una metamorfosi che lo spersonalizza. “Non ho più nome.” la natura d’intorno, in quell’ora stregata, lo attira a sé irresistibilmente. “il mio volto s’indora dell’oro meridiano.” Il richiamo è così forte che, alla fine, l’immedesimazione è totale, panica. “Il fiume è la mia vena …Io sono nel fuco, nella paglia marina, , in ogni cosa esigua, in ogni cosa immane. In tutto io vivo tacito come la Morte.” La coscienza si annulla fondendosi con l’anima della natura, dove la morte terrena del singolo “vive” nella totalità dell’Essere. Questo è D’annunzio, la cui poesia, coerentemente con la sua storia personale, fa (o vuole fare) della vita un’opera d’arte segnata dalla bellezza, da un estetismo vagamente ispirato al superuomo nicciano, dal piacere, dalla sensualità dell’abbraccio panteistico.. Al contrario, Montale, si incammina nell’ora più torpida e calda, pensosamente, “lungo un rovente muro d’orto.” Conosce bene la condizione esistenziale dell’uomo. Pensa che “per i più non sia salvezza.” L’illusione non soccorre, né giovano le memorie eroiche e auliche; piuttosto lo colpiscono le immagini del “male di vivere” quali “il rivo strozzato … la foglia accartocciata … il cavallo stramazzato.” Il meriggio mostra al poeta i segni di una natura che, seppur varia e vitale, non crea sussulti dell’anima, non è lirica, ma rude, aspra, interessata a tessere l’inutile trama dell’indifferenza e del nonsenso di cui è simbolo l’andirivieni di “rosse formiche ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano/ a sommo di minuscole biche”, operosità ripetitiva che richiama la condizione alienante del lavoro umano. Un barlume giunge dal “palpitare lontano di scaglie di mare, ” ma, laddove la luce è più forte, non lo è per illuminare “da ogni lato l’animo nostro informe”, non per farlo risplendere “come un croco/ perduto in mezzo a un polveroso prato.” Lo è per diventare un “sole che abbaglia”, e che accompagna la solitaria fatica di risalire ” una muraglia” il cui al di là, semmai nascondesse una qualche salvezza, sarebbe vietato agli uomini dalla presenza di “cocci aguzzi di bottiglia.”
Chiara Scidone
Lo stesso tema, due epoche diverse. Montale fa un omaggio a D’annunzio e allo stesso tempo vi si contrappone. Il meriggio di Montale è costituito da tanti particolari: dai rumori delle serpi, dei merli ma anche dal nulla e dalla solitudine che si nascondono dietro all’impossibilità dell’uomo di vivere, di scavalcare un muro invalicabile con i cocci di bottiglia alla sommità. Il “muro” è il limite dell’uomo, così la sua vita diventa priva di senso. Invece il meriggio D’annunziano è caratterizzato dal silenzio e da una descrizione minuziosa della natura. Il poeta, diventa parte integrante di essa e riesce a percepire una sensazione di infinito. E così “Ogni traccia di uomo è perduta”.
Roberta Maestrelli Berti
Per come io le sento, Montale descrive, dipinge, ammira la natura, ma non si ditacca dai travagli della vita. D’Annunzio si immerge, si annienta, svanisce nell’armonia che dà oblio.
Maria Antonietta Rauti
Un bellissimo confronto descrittivo-sensoriale, azzarderei… l’ascolto dannunziano echeggia di strofa in strofa e diventa rimbombo divino, la sua penna. dipinge d’inchiostro il tutto che diviene Arte. Parimenti in Montale ecco che il Meriggio accosta il pensiero dell’umano sentire, trasportandolo sul Travaglio dell’esistenza sofferta, ma appunto per questo pienamente viva
Giacomo Trinci
Musica e contro-musica, si potrebbe dire; al sinfonismo massimalisticamente teso in torsioni wagneriane di D’Annunzio, l’assorto debussysmo del Montale di “meriggiare”. Come avviene per le contrapposizioni nette, a distanza di tempo lo sguardo postumo le tiene insieme, le lega in armonica alternanza, come due facce di una sfolgorante medaglia, in lingua densa e netta. Emozionante leggerle insieme, così! Come emerse e deterse dai reciproci contesti. Marchi ha avuto la grande sensibilità di ascolto per unirle in una proposta di lettura.