31 luglio 2019 – Stravince Pier Paolo Pasolini con il post Pasolini e la terra di lavoro, una delle punte di diamante tra i poemetti che costituiscono quell’indispensabile testo della poesia italiana del secondo Novecento che corrisponde al nome de Le ceneri di Gramsci. Praticolarmente belli e intonati anche i vostri commenti, a significare quanto la poesia pasoliniana sia ancora in grado di farsi ascoltare e suscitare reazioni. Un ottimo segno, in tempi difficli come i nostri!

Al primo posto assoluto aggiudicatosi con facilità da Pasolini fanno riscontro un ex aequo al secondo gradino del podio spartito tra Paul Celan e Mario Luzi (rispettivamente con Nel mareggiare di errabonde parole e Infinito ritrarre. Luzi e Francesconi) e una doppietta di poeti che si aggiudicano la medaglia di bronzo, ancora tra poesia italiana e poesia straniera: Mariangela Gualtieri e Sylvia Plath (Invito alla dolcezza. Mariangela Gualtieri e Io sono verticale. Sylvia Plath). Benissimo!

Tra i vostri commenti la selezione si presentava stavolta particolarmente difficile, ma alla fine abbiamo deciso di segnalare quelli di giacomotrinci, Isola Difederigo e tristan51. Nell’ordine: “Rileggere il poemetto pasoliniano, a distanza di tempo, precipita nella poesia violentemente, dolcemente. Spinge di colpo a chiedersi le ragioni che muovono una creatura umana a volgersi al mondo con questi occhi e questa lingua; occhi puri e lingua impura, fatta di storia, strati di mondi, epoche: a monte, questa viva esigenza di totalità, apertura alla storia, alla comunità. La terzina di Dante e di Pascoli diventa una vertebra, un fantasma che sostiene, ancora per poco, un mondo che si dissolverà. Per ritrovare, poi, un poeta ‘non più in terzine’, il magma ha vinto.”; “Alla solidarietà di marca antropologica e linguistico-espressiva che ha ispirato la poesia di Pasolini degli anni friulani, è qui subentrato, nella chiave socio-ideologica del primo tempo romano, il sentimento di una asciutta ‘pietà’ verso tutto un popolo di lavoratori ai margini della società e della storia: il popolo che ieri, o forse anche oggi, della pietà di un intellettuale, un poeta, non sa che farsene. Al riflesso opaco di questa luce di fango la poesia pasoliniana denuncia ora la sua fame di realtà, il suo modo di amare il popolo religiosamente.”; “Che Novecento italiano sarebbe senza un libro come ‘Le ceneri di Gramsci’? Pasolini individua nell’endecasillabo e nella terzina dantesca in aggiornata accezione novecentesco-pascoliana un affidabile strumento per raccontare il sociale e la cronaca che si fa Storia: una moderna narratività poetica che trova nei poemetti delle ‘Ceneri’ la sua tenuta più compatta e il suo momento più alto. Poi, già con le raccolte degli anni Sessanta, la bilancia oscillerà pericolosamente: quel tentato e di per se stesso instabile equilibrio non regge, quella forma sperimentata con profitto si sfalda e la poesia cambia faccia, prestandosi a mille oltraggi e a mille nuove identificabilità. Sino a fare di se stessa, di se stessa com’era stata tra passione e ideologia un tempo, una contraddizione instante o un recidivo simultaneismo.”. Ma devo anche un ringraziamento a Elisabetta Biondi della Sdriscia per quello che nel suo commento , con amichevole ed eccessiva generosità, afferma nei confronti della mia presentazione.

Buon prosieguo dell’estate con il mese di agosto, che per noi sarà un altro mese di “notizie di poesia”, con altri testi e altri autori. A domani!

Marco Marchi

Pasolini e la terra di lavoro

VEDI I VIDEO “La terra di lavoro” letta da Pier Paolo Pasolini , “Il canto popolare” letto da Pier Paolo Pasolini , “Profezia” letta da Toni Servillo , “Che paese meraviglioso era l’Italia…” letto da Toni Servillo

Firenze, 4 luglio 2018 – Pasolini ha sempre voluto esprimere se stesso e con se stesso tutta la realtà. Nel fare questo ha partecipato al suo tempo in uno sforzo appassionato, culturalmente e poeticamente nutritissimo, di autonarrazione ed autointerpretazione che lo ha condotto lontano e lo ha progressivamente isolato in misura sempre maggiore. Ma in lui una consapevolezza risulta ben radicata: «I poeti appartengono sempre a un’altra civiltà» (Bestia da stile).

E’ così che Pier Paolo Pasolini, prima di tutto un poeta, consegna alla poesia e non ad altri mezzi  le sue spregiudicate registrazioni, i suoi spiazzanti proclami eretici e le sue profezie. «Mendico per i ghetti» del mondo, «cupo d’amore», il profeta in versi non può elemosinare alleanze e consenso, ma deve ancorarsi eroicamente alla sua natura di «animale senza nome», retoricamente «libero d’una libertà» che massacra, alla sua unica certezza infelice: «di essere il reietto di un raduno / di altri: tutti gli uomini, senza distinzione, / tutti i normali, di cui è questa vita» (La realtà, in Poesia in forma di rosa).

La poesia – «tentazione di santità», secondo l’efficacissimo ossimoro dissimulato nei versi della Realtà – sembra ancora permettere di sfuggire, dopo un libro come Le ceneri di Gramsci, ad ogni ipostatizzazione, dal momento che coglie e vocalizza l’antitesi; in lei «tutto può avere una soluzione», perché non pretende coerenza e affidabilità, strettoie soffocanti del sistema, ma sopporta l’unica misura di libertà e d’igiene intellettuale consentita all’artista, lo scandalo: «Nessun artista in nessun paese è libero. / Egli è una vivente contraddizione». L’intima sineciosi non consente in effetti a Pasolini lunghe epochè, trascinandolo piuttosto in continue, esplosive scelte di contraddizione, quasi che questo costituisse l’unico modo per mantenersi coerente con la sua intangibile, tenebrosa ed accecante distanza.

Nessuna patria gli appartiene, nessuna casa lo può più proteggere dal suo interiore rovello; non può smettere di sfuggire perché è poeta nell’intimo, è il «segnato», vittima e profeta. Come già dicono versi di Roma 1950: «Non tornerò / dalla periferia / di Roma o del Mondo, secondo il destino del Figliol Prodigo, / su cui voi sareste pronti a scommettere, / borghesi volgari e borghesi squisiti, / o meglio, tornerò, se così è umano, / ma andando sempre più lontano». I confini della denuncia, tra delusioni e nuove solidarietà alternative intraviste, si allargano, e un indirizzo di sperimentazione operativa per via poetica, al di là di ogni futura, esibita ed aggravata  impraticabilità della speranza, si riconferma.

Marco Marchi

La terra di lavoro

Ormai è vicina la terra di lavoro, 
qualche branco di bufale, qualche 
mucchio di case tra piante di pomidoro,

èdere e povere palanche. 
Ogni tanto un fiumicello, a pelo 
del terreno, appare tra le branche

degli olmi carichi di viti, nero 
come uno scolo. Dentro, nel treno 
che corre mezzo vuoto, il gelo

autunnale vela il triste legno, 
gli stracci bagnati: se fuori 
è il paradiso, qui dentro è il regno

dei morti, passati da dolore 
a dolore – senza averne sospetto.
Nelle panche, nei corridoi,

eccoli con il mento sul petto, 
con le spalle contro lo schienale, 
con la bocca sopra un pezzetto

di pane unto, masticando male, 
miseri e scuri come cani 
su un boccone rubato: e gli sale

se ne guardi gli occhi, le mani, 
sugli zigomi un pietoso rossore, 
in cui nemica gli si scopre l’anima.

Ma anche chi non mangia o le sue storie 
non dice al vicino attento, 
se lo guardi, ti guarda con il cuore

negli occhi, quasi, con spavento, 
a dirti che non ha fatto nulla 
di male, che è un innocente.

Una donnetta, di Fondi o Aversa, culla 
una creatura che dorme nel fondo 
d’una vita d’agnellino, e la trastulla

– se si risveglia dal suo sonno 
dicendo parole come il mondo nuove – 
con parole stanche come il mondo.

Questa, se la osservi, non si muove, 
come una bestia che finge d’esser morta; 
si stringe dentro le sue povere

vesti e, con gli occhi nel vuoto, ascolta 
la voce che a ogni istante le ricorda 
la sua povertà come una colpa.

Poi, riprendendo a cullare, cieca, sorda, 
senza neanche accorgersi, sospira. 
Col piccolo viso scuro come torba,

in un muto odore di ovile, 
un giovane è accanto al finestrino, 
nemico, quasi non osando aprire

la porta, dare noia al vicino. 
Guarda fisso la montagna, il cielo, 
le mani in tasca, il basco di malandrino

sull’occhio: non vede il forestiero, 
non vede niente, il colletto rialzato 
per freddo, o per infido mistero

di delinquente, di cane abbandonato. 
L’umidità ravviva i vecchi 
odori del legno, unto e affumicato,

mescolandoli ai nuovi, di chiassetti 
freschi di strame umano.
E dai campi, ormai violetti,

viene una luce che scopre anime, 
non corpi, all’occhio che più crudo 
della luce, ne scopre la fame,

la servitù, la solitudine. 
Anime che riempiono il mondo, 
come immagini fedeli e nude

della sua storia, benché affondino 
in una storia che non è più nostra. 
Con una vita di altri secoli, sono

vivi in questo: e nel mondo si mostrano 
a chi del mondo ha conoscenza, gregge 
di chi nient’altro che la miseria conosca.

Sono sempre stati per loro unica legge 
odio servile e servile allegria: eppure 
nei loro occhi si poteva leggere

ormai un segno di diversa fame – scura 
come quella del pane, e, come 
quella, necessaria. Una pura

ombra che già prendeva nome 
di speranza: e quasi riacquistato 
all’uomo, vedeva il meridione,

timida, sulle sue greggi rassegnate 
di viventi, la luce del riscatto. 
Ma ora per queste anime segnate

dal crepuscolo, per questo bivacco 
di intimiditi passeggeri, 
d’improvviso ogni interna luce, ogni atto

di coscienza, sembra cosa di ieri. 
Nemico è oggi a questa donna che culla 
la sua creatura, a questi neri

contadini che non ne sanno nulla, 
chi muore perché sia salva 
in altre madri, in altre creature,

la loro libertà. Chi muore perché arda 
in altri servi, in altri contadini, 
la loro sete anche se bastarda

di giustizia, gli è nemico. 
Gli è nemico chi straccia la bandiera 
ormai rossa di assassinî,

e gli è nemico chi, fedele, 
dai bianchi assassini la difende. 
Gli è nemico il padrone che spera

la loro resa, e il compagno che pretende 
che lottino in una fede che ormai è negazione 
della fede. Gli è nemico chi rende

grazie a Dio per la reazione 
del vecchio popolo, e gli è nemico 
chi perdona il sangue in nome

del nuovo popolo. Restituito 
è cosi, in un giorno di sangue, 
il mondo a un tempo che pareva finito:

la luce che piove su queste anime 
è quella, ancora, del vecchio meridione, 
l’anima di questa terra è il vecchio fango.

Se misuri nel mondo, in cuore, la delusione 
senti ormai che essa non conduce 
a nuova aridità, ma a vecchia passione.

E ti perdi allora in questa luce 
che rade, con la pioggia, d’improvviso 
zolle di salvia rossa, case sudice.

Ti perdi nel vecchio paradiso 
che qui fuori sui crinali di lava 
dà un celeste, benché umano, viso

all’orizzonte dove nella bava 
grigia si perde Napoli, ai meridiani 
temporali, che il sereno invadono,

uno sui monti del Lazio, già lontani, 
l’altro su questa terra abbandonata 
agli sporchi orti, ai pantani,

ai villaggi grandi come città. 
Si confondono la pioggia e il sole 
in una gioia ch’è forse conservata

– come una scheggia dell’altra storia, 
non più nostra – in fondo al cuore 
di questi poveri viaggiatori:

vivi, soltanto vivi, nel calore 
che fa più grande della storia la vita. 
Tu ti perdi nel paradiso interiore,

e anche la tua pietà gli è nemica.

Pier Paolo Pasolini

(1956; da Le ceneri di Gramsci)

I VOSTRI COMMENTI

Antonietta Puri
Dal finestrino di un treno per pendolari, un treno mezzo vuoto nel freddo autunnale, osservare gli elementi del paesaggio che ne denunciano l’appartenenza al Meridione, anzi a quello spicchio di suolo denominato “Terra del Lavoro”; osservare poi i rari passeggeri del treno, gente che guarda con occhi indolenti e disincantati la vita che gli scorre davanti… Meditare, con animo ancora fervido, sulla condizione umana di queste persone taciturne, che vivono la povertà come una colpa, ognuno con la propria storia senza storia di fame e di servitù, gente il cui rossore sugli zigomi rivela una specie di vergogna nell’improvvisa passeggera coscienza di avere un’anima… E poi accomunare nel proprio sentire tutti i derelitti della terra e ricordare un tempo in cui nei loro occhi si leggeva, insieme a quella del corpo, un’altra fame: la speranza di liberarsi dal sopruso e dalla miseria, la speranza, anzi la fede, del riscatto sociale e morale… Non più ora; ora i miseri del mondo non hanno più come solo nemico il padrone delle terre, ma anche quella cosa astrusa, quell’astrazione inventata dagli intellettuali che ha sostituito la parola “fede” con “ideologia”: cosa che non appartiene a questa gente perché vola troppo alta sulla loro testa e a volte postula lo spargimento di sangue… E così, il viaggiatore Pasolini si rassegna sul triste futuro di queste terre e di chi le abita, mentre rimpiange il gusto forte delle antiche passioni. Nel frattempo, un sole al tramonto che si mescola alla pioggia sembra accendere una favilla di speranza nel cuore di quei poveretti e il poeta avverte un senso di compassione per la loro sorte, sentendo con sgomento che anche la sua pietà ha un peso su quelle anime, come un’altra nemica. Questo è Pasolini: affascinante, appassionato, spiazzante, talvolta irritante, spesso irriverente e provocatorio, uno che scava fino in fondo la realtà mettendocisi tutto. Uno la cui voce, a tanti anni dalla sua morte, si fa sempre sentire chiara e forte!

tristan51
Che Novecento italiano sarebbe senza un libro come “Le ceneri di Gramsci”? Pasolini individua nell’endecasillabo e nella terzina dantesca in aggiornata accezione novecentesco-pascoliana un affidabile strumento per raccontare il sociale e la cronaca che si fa Storia: una moderna narratività poetica che trova nei poemetti delle “Ceneri” la sua tenuta più compatta e il suo momento più alto. Poi, già con le raccolte degli anni Sessanta, la bilancia oscillerà pericolosamente: quel tentato e di per se stesso instabile equilibrio non regge, quella forma sperimentata con profitto si sfalda e la poesia cambia faccia, prestandosi a mille oltraggi e a mille nuove identificabilità: sino a fare di se stessa, di se stessa com’era stata tra passione e ideologia un tempo, una contraddizione instante o un recidivo simultaneismo.

Arianna Capirossi
Pasolini non fu un semplice poeta, fu un parresiaste. Nella sua vita si caricò del peso della verità, che veicolò in una letteratura in grado di descrivere nella maniera più perspicua le dinamiche storiche e sociali del secondo Novecento. Leggendo Pasolini si capisce perché e come siamo arrivati oggi a essere ciò che siamo; la sua parola è rivelatrice.

Maria Antonietta Rauti
Pasolini, come l’uomo di Gide, fa “oeuvre utile”; certo, la conquista di un linguaggio adeguato a una poesia capace di testimoniare la presenza del poeta nella storia sociale e civile è difficile. Ecco perché la poesia nuova, anche quando rivela essere vera, conserva un atteggiamento sperimentale a cui appartiene anche la forma lirica di Pier Paolo Pasolini che dipinge, spennellandola continuamente, la verità cruda del reale. Pure il poeta delle Ceneri nasce proprio da quelle classi lavoratrici e popolari che, all’indomani dell’esperienza della guerra e della Resistenza, sentono il bisogno di contribuire al farsi della storia e dell’umanità tra la ricchezza del pensare e, a volte, la miseria del vivere.

Giulia Bagnoli
Ogni viaggiatore ha una storia negli occhi, anche soltanto intravista o sfocata. In questo veder passare la vita passivamente c’è tutta la rassegnazione del poeta che, deluso e senza illusioni, racconta la vita vera.

Maria Grazia Ferraris
Non finirà mai di commuovere e stupire questo eterno Poeta paradossale e contestatore, libertario e anarchico, scandaloso e profetico, provocatorio e spiazzante. Un poeta comunque sempre e in ogni caso, sia quando ci immette nel paesaggio desolato del sud, la terra di lavoro, tra bufale al pascolo e pomodori sitibondi e neri torrenti visti da un treno in lenta corsa, affollato da nere presenze mute e stanche, spaventate dalla vita che vivono dalla povertà vissuta come una colpa. In una luce livida che sembra illuminare solo fame, solitudine, spavento dove pur si fanno strada bagliori giovanili di altra Fame, altra sete, speranza di libertà…. tutto diventa per loro, difficile da riconoscere, nemico: il padrone, la bandiera, il compagno ideologizzato, il fedele conservatore, il ricatto eterno dell’affettività materna, espressioni del vecchio meridione deluso ed anche della pietà dell’intellettuale Poeta. Un’Italia che sembra lontana, storicamente datata, e che è invece ancora la nostra…., in cui il nero contadino silenzioso, senza parole, scuro, rimane nero..e non solo di eterna infinita fatica quotidiana.

framo
Oltre la storia, “nel calore che fa più grande della storia la vita”, proprio in virtù della adesione e fedeltà della poesia autentica alla vita, la forza originaria della voce del poeta (che mai può dirsi semplice) perlustra e scava nel profondo e, ogni volta, si rivela fonte d’inesauribile provocazione. Integra, lucida, presente a se stessa e – proprio
perché profondamente umana – sempre sensualmente critica si sforza di andare “dicendo parole come il mondo nuove”. L’effetto, oggi come allora, è quello di stimolare una reazione intensa e reale allo stato di narcosi cronica in cui versa chi, al trastullo di parole fiacche e fiaccate come il mondo, ha finito per avvertire come ostile persino il risveglio e l’ascolto della propria anima (qui “creatura che dorme nel fondo d’una vita d’agnellino”) e si è assuefatto alla stanchezza incrostata di pseudoparole che gettano in un torpore sempre più radicato e immedicabile, indotto da eccesso di altrui e propria dimenticanza. Grazie PPP.

Damiano Malabaila
Mi sembra giusto insistere su Pasolini poeta: lo è stato sempre (generosamente, sorprendentemente), qualunque fosse il mezzo espressivo; ed è stato uno dei massimi…

Elisabetta Biondi della Sdriscia
E’ poesia alta, davvero alta poesia questa della pasoliniana “Terra di lavoro”: la terzina dantesca – e pascoliana – tra tradizione e modernità, appare strumento metrico perfettamente congeniale al poeta di Casarsa, che in questo poemetto la plasma con la facilità dei grandi poeti e la poesia si inarca da una terzina all’altra, corre sui versi come il vecchio treno su cui il poeta viaggia, spostandosi con sguardo penetrante – quasi una cinepresa – dai miseri viaggiatori al paesaggio fuori dal finestrino, e il canto accorato che ne scaturisce è la sola speranza che a Pasolini rimane. Perché Pier Paolo Pasolini è soprattutto poeta e alla poesia affida la sola possibilità di conciliare la storia con la vita, la sola possibilità di conciliare impegno di intellettuale anti borghese e formazione borghese, la sola possibilità di incidere sulla realtà e sulla storia. Per la sua presentazione di grande efficacia e chiarezza, ringrazio il prof. Marchi!

Isola Difederigo
Alla solidarietà di marca antropologica e linguistico-espressiva che ha ispirato la poesia di Pasolini degli anni friulani, è qui subentrato, nella chiave socio-ideologica del primo tempo romano, il sentimento di una asciutta “pietà” verso tutto un popolo di lavoratori ai margini della società e della storia: il popolo che ieri, o forse anche oggi, della pietà di un intellettuale, un poeta, non sa che farsene. Al riflesso opaco di questa luce di fango la poesia pasoliniana denuncia ora la sua fame di realtà, il suo modo di amare il popolo religiosamente.

Ferruccio Palmucci
Un film memorabile: “Accattone.” La prima trasposizione cinematografica della poetica pasoliniana riguardante le borgate romane e i “ragazzi di vita.” Un Franco Citti superlativo, una vera rivelazione. Ricordo l’emozione che mi suscitò questo film: una grande pietà per il mondo della deprivazione morale e civile in cui Pasolini, attraverso il personaggio principale, “gettava” il suo cuore di poeta e la sua coscienza di intellettuale. Accattone, infatti, è un ragazzo segnato dal destino. Per lui è già tutto scritto: Le azioni criminose, la miseria morale, la breve pausa dell’amore che non riesce a salvarlo e, alla fine, la morte che lo riscatta. Una redenzione, dunque, mediante il dolore di un’esistenza sventurata che si conclude con la morte; tutto in un’atmosfera di intensa pietà “evangelica” che si percepisce in tutta l’opera, anche in virtù del commento musicale.

Giacomo Trinci
Rileggere il poemetto pasoliniano, a distanza di tempo, precipita nella poesia violentemente, dolcemente. Spinge di colpo a chiedersi le ragioni che muovono una creatura umana a volgersi al mondo con questi occhi e questa lingua; occhi puri e lingua impura, fatta di storia, strati di mondi, epoche: a monte, questa viva esigenza di totalità, apertura alla storia, alla comunità. La terzina di Dante e di Pascoli diventa una vertebra, un fantasma che sostiene, ancora per poco, un mondo che si dissolverà. Per ritrovare, poi, un poeta “non più in terzine”, il magma ha vinto.

Matteo Mazzone
Quello delle “Ceneri” è uno tra i più bei Pasolini – perché molte sono le sue facce legate alla malleabilità e poliedricità delle sue direzioni – che affonda il bisturi nel proprio corpo e nella propria persona, facendo della sua affilata ed oltranzistica autoanalisi una coraggiosa, ma volutamente non sempre lucida, autopsia: a Pasolini non rimane, ancora una volta, che il solo combattere, gettando il corpo nella terra e nella lotta. Proprio questo sembra, ancora oggi a 43 anni dalla sua scomparsa, ciò che è doveroso salvare: la crisi personale di un intellettuale stabilmente in bilico, che pare ancora legato alla suggestione montaliana dell’”anello che non tiene”. Al mondo contadino, puro villereccio, si sta ora opponendo l’impura società industriale, distorta e contraddittoria, dove la poetica “rosada, luccicante e semplice, si scontra irrimediabilmente con il pervasivo e grigiastro smog.

Aretusa Obliviosa
Certe scritture sono crudeli nella spietatezza adamantina del loro sguardo sull’umanità. Anche in Pasolini non ci sono padri; non c’è redenzione; c’è solo la croce. E la solitudine è il prezzo alto da pagare a una terra promessa, tradita e sacrificata da quei pochi che, posti di fronte al crocevia della storia, hanno scelto per tutti. Così, all’ombra del Vesuvio, non rimane né l’odore delle ginestre né la certezza di una gioia, magari da poter fraternamente condividere. Questa è ormai soltanto un remoto dubbio, una scheggia conficcata in fondo al cuore di ognuna delle povere anime perse, orfane di una storia comune e sole ad affrontare l’unico bene che resta loro: la vita. E il paradosso è che proprio questi uomini, questi singoli brandelli di vita, umiliati e offesi nel loro essere ignari, costituiscono, appunto senza saperlo, col loro semplice esserci, qualcosa che della storia stessa è ancor più sacro.

Chiara Scidone
Pasolini in viaggio verso il sud, verso la terra di lavoro, denuncia la nuova società e i suoi cambiamenti. Mette a contrasto la vecchia vita contadina, semplice e spensierata con quella nuova borghese triste e omologata.Adesso le stesse persone che prima avevano diverse abitudini sono tutte uguali e la società odierna rende li sordi e ciechi davanti alla nuova realtà.

Marco Capecchi
Poesia impegnata quella di Pasolini. Di un impegno senza partito: dalla parte di un mondo che sta scomparendo, privo di ottimismo e impregnato di un pessimismo dell’intelligenza che annuncia anzi tempo l’apocalisse culturale nella quale siamo ormai immersi.

Duccio Mugnai
Un incubo trasumanato in realtà. Tutto è nemico e veleno per questa miseranda gente. Vittima e colpevole allo stesso tempo. E anche la nostra pietà ipocrita e borghese “gli è nemica”. Tutto sembra attraversato, superato, ormai sulla via della dimenticanza: “[…] Gli è nemico chi straccia la bandiera / ormai rossa di assassinî, / e gli è nemico chi, fedele, / dai bianchi assassini la difende. / Gli è nemico il padrone che spera//la loro resa, e il compagno che pretende / che lottino in una fede che ormai è negazione / della fede. […]”. Neanche la vita sembra più un’identità che riscatta questo mondo di schiavi e di miseria in tutte le sue forme. Così tanto la lirica di Pasolini attraversa tempo e spazio, che sembra quasi preludere una delle sue ultime composizioni surreali, terribili, profezia di un futuro blasfemo, dove ogni valore si confonde e perde dignità. Dove, “essi sempre umili”, “essi sempre colpevoli”, per uccidere e derubare, andranno dietro ai loro Alì dagli occhi azzurri. Poi in un orizzonte lugubre, escatologicamente infero e maledetto, dove l’autore affronta la contraddizione in pieno e non se ne scandalizza, perché conosce troppo bene la radice del male, in cui è interamente implicato, dichiara che “[…] Poi col Papa e ogni sacramento / andranno su come zingari / verso nord-ovest / con le bandiere rosse /di Trotzky al vento…”.

Lorenzo Dini
È assolutamente vero che Pasolini non appartiene a nessuna patria e nessuna casa può proteggerlo dal suo interiore rovello. Si pensi infatti all’ultima sontuosa dimora nel Viterbese, la torre di Chia. Pasolini lì compose le ultime opere, fra le quali “Petrolio”. Per il carattere fluviale, digressivo ed episodico, della ‘forma’ immaginata, “Petrolio” prolifera di neoplasie narrative e, nelle intenzioni dell’autore, doveva essere un contenitore di materiali eterogenei che si accompagnavano a frammenti di marca autoriale (come del resto egli aveva già realizzato con le fotografie nell’ultimo capitoletto – “Iconografia ingiallita” – della “Divina Mimesis”). E infatti probabilmente in questo romanzo ‘summa’ avrebbero trovato la loro collocazione le fotografie di Dino Pedriali, scattate nella torre di Chia. Là, nell’intimo della cella monastica che lo protegge, Pasolini si mostra nudo: col sesso scoperto e con le braccia magre di vecchio, si espone attraverso le grandi vetrate di Chia, che anziché costituire una chiusura dello spazio, lo aprono all’esterno, o meglio è l’esterno che invade lo spazio intimo. Quando Pasolini mette le mani a binocolo sugli occhi sembra dirci che sa di essere spiato, usa le mani come i Signori scellerati di “Salò” usano il binocolo per osservare le torture, ma i ruoli vengono rovesciati: siamo noi i torturatori. Proprio quando Pasolini sembra che apra il suo spazio intimo agli spettatori, lo fa capovolgendone il valore e mostrandosi ancora una volta, in un ultima e tragica esibizione del sé (“expostio sui” è termine di Foucault) con la potenza del proprio corpo (“ultimo baluardo di realtà”, come tragicamente afferma nell’articolo “Abiura dalla Triologia della vita”) reso eterno per la morte dalla luce catturata dalla macchina fotografica. Un fotogramma, come diceva Longhi a proposito di Caravaggio.

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