Firenze, 31 luglio 2023 – Vince Mario Luzi in compagnia del suo ritrattista Mario Francesconi con il commentatissimo post Luzi, Francesconi e l’infinito ritrarre che qui si ripublica accompagnato come di regola dai vostri numerosi ed acuti commenti. Notevoli i ritratti di Francesconi, ma davvero notevole anche la poesia di Luzi che ha sostenuto – con la partecipazione ideale di un altro pittore, il medioevale Simone Martini – il peso specifico di tipo letterario del post, Rimani dove se, ti prego. Al secondo gradino del podio, òò’insegna della internazionalità e tra contemporaneità e storicità, un ex aequo tra Mariangela Gualtieri e Vladimir Majakovskij, rispettivamente con Sii dolce, sii gentile. Mariangela Gualtieri e Anniversario Majakovskij. Altro ex aequo, e ancora tra rappresentatività femminile e maschile, tra Sylvia Plath e Vittorio Sereni, rispettivamente ancora per gli strepitosi versi di Io sono verticale (Io sono verticale. Sylvia Plath), e quelli, bellissimi, de La malattia dell’olmo (Guidami tu, stella viariabile. Vittorio Sereni).

Tra i vostri commenti su Luzi e Francesconi segnaliano quelli di Giacomo Trinci, Antonietta Puri e Matteo Mazzone. Nell’ordine: “Il poeta, l’artista: il punto d’incrocio fra vicissitudine e forma, per usare proprio i termini luziani, sono dipinti in questa poesia-immagine e colti nella loro puntuale convergenza: luogo impossibile e tenuto con ferma perizia, che un fraterno artista come Francesconi rende nell’ infinità di variazioni del ritratto di un poeta.L’icona catturata dalla tessitura poetica fluente e delicata, fatta di parole scorrenti una sull’altra, trascoloranti, batte nella scansione del tempo, nella vita; si arrende e resta, nella sua bellezza pietosa. Questa è la poesia che annuncia uno spazio di letizia, una vita nova, un’attesa senza fine di una fisica salvata, di una vita redenta dal pianto delle cose.”; “Un poco stupisce che un fiorentino di nascita ami così svisceratamente Siena e l’arte senese (ma sappiamo che Luzi aveva tutti i suoi buoni motivi), ripensando ai tempi delle antiche rivalità, in cui gli artisti senesi rifiutavano di dipingere il giglio, simbolo dell’odiata Fiorenza, nella mano dell’angelo annunciante, compreso Simone Martini, che nella celeberrima Annunciazione degli Uffizi, sentendosi moralmente obbligato a rendere l’immagine immacolata di Maria, colloca quattro gigli in un bel vaso d’oro, preferendo dare a Gabriele un ramo di ulivo… Ma noi siamo ben contenti di questo amore, se ha prodotto il capolavoro davvero eccelso che è il ‘Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini’: viaggio iniziatico dell’artista, del poeta e della nostra umanità che, per la sua valenza sapienziale, in qualche modo non dissimile da quello dantesco, rappresenta il faticoso e affascinante ritorno a quell’assoluto dal quale proveniamo, o comunque una specie di incontro a mezza strada con quel Dio che, ponendosi al nostro livello, scende a cercarci lungo il cammino. E’ un meraviglioso viaggio tra l’epico e il metafisico, in cui i viandanti, attraverso la celebrazione dei sensi, della mente e dello spirito, prendendo spunto dalla figura di Maria, procedono accettando ciò che non comprendono ma che intuiscono, a lei affidandosi in quanto donna dell’ ascolto e della decifrazione silenziosa, della pazienza e dell’attesa. L’immagine è quella dell’Annunciata degli Uffizi, ritrosa e consenziente, ma è anche quella della vergine in trono della Maestà senese, ‘regina’.”; “Il dramma, qui, è quello della perdita della poesia come fonte di ispirazione, flusso semicosciente e produttivo che, nel suo rapido scorrere, sembra talvolta impossibile fermare, cristallizzare, raggelare. Ed è questa, per Luzi come per tutti i grandi poeti, la maggiore delle preoccupazioni: la scomparsa di quella vita parallela, di quel mondo poietico, di quella dimensione di ricerca di un sé differente eminentementi creati e costruiti secondo i canoni estetici della parola, del bel verso, della corretta e analgesica miscela tra pensiero e voce, tra il binomio saussuriano ‘langue’ e ‘parole’. Così, Luzi invoca e rivendica per sé – con un brillante imperativo ‘rimani’ seguito dall’invito ‘ti prego’, che implica tanto comando quanto sottomissione nel ruolo del poeta – il fondamentale apporto dell’ispirazione poetica, affinché la sua opera non diventi ‘colpa’, cioè colpevole di essere solo successione asettica di significanti grafici a cui manca il significato, il senso, lo spirito.”.

Buon prosieguo dell’estate con i poeti e i testi di agosto! Le nostre “Notizie”, come sapete, non vanno mai in ferie, e la poesia sempre ci accompagna!

Marco Marchi

Luzi, Francesconi e l’infinito ritrarre

VEDI I VIDEO “Rimani dove sei, ti prego” letta da Francesco Manetti nel trailer del documentario “In Toscana. Viaggio in versi con Mario Luzi” , Tre poesie di Mario Luzi , Una mostra di Mario Francesconi , “Vola alta, parola…” secondo Francesco Oliveto

Firenze, 22 luglio 2023 – I ritratti che Mario  Francesconi ha dedicato a Mario Luzi sono pressoché infiniti: una vera e propria «esondazione» di ritratti, come Luzi disse una volta dell’intera, vastissima produzione dell’amico pittore. Ritratti come inesauribile variazione di un soggetto costante sul modello rivisitato degli antichi e come anche accade nei moderni: si pensi a Morandi, o per altro verso a Mondrian, uno dei numi tutelari dell’arte di Francesconi.

Luzi, insomma, sempre Luzi, fortissimamente Luzi, secondo un’intima, approssimante e quasi gemellarmente ritrovata iconografia dell’anima bisognosa di venire alla superficie: una instancabile ed insaziata ricorrenza fra tempo ed attimo eterno, nel segno di quella fedeltà a temi privilegiati e motivi ritornanti riscontrabile anche nel poeta Mario Luzi. Che galleria di fiumi, ad esempio, nei suoi versi «naturali», da La barca alla Dottrina dell’estremo principiante! E che esempio sublime, in chiave di autobiografismo trasposto e nuovamente di allusioni allegoriche fluviali, quello fornito dal pittore-alter ego del Viaggio terrestre e celeste, Simone Martini!

Dicono magnificamente i versi di Luzi: «Arte, cosa m’illumina il tuo sguardo? / la vita o la memoria / della vita? i suoi lampi, / la sua continuità? / del sempiterno fiume l’alveo o il flusso?» (Arte, cosa m’illumina il tuo sguardo?). Un’interrogazione che si placa più nell’umiltà dell’operare, nell’adempimento indefesso, paziente e scrupoloso di un compito, che non nella penetrazione del «mistero», nella sua chiara e definitiva decifrazione che quegli aneliti decodificanti annullerebbe, ridurrebbe a «stasi». E tuttavia, ancora secondo gli splendidi versi di Luzi, e nei termini di una ferma e struggente preghiera di chi all’arte con confidenza propriamente religiosa (con fede) tende e si affida: «Rimani dove sei, ti prego, / così come ti vedo. / Non ritirarti da quella tua immagine, / non involarti ai fermi / lineamenti che ti ho dato / io, solo per obbedienza. / Non lasciare deserti i miei giardini / d’azzurro, di turchese, / d’oro, di variopinte lacche / dove ti sei insediata / e offerta alla pittura / e all’adorazione, / non farne una derelitta plaga, / primavera da cui manchi, / mancando così l’anima, / il fuoco, lo spirito del mondo. / Non fare che la mia opera / ricada su se medesima, / diventi vaniloquio, colpa» (è la nostra «poesia del giorno», Rimani dove sei, ti prego).

Ossessioni di artisti, loro timori e loro porsi in stato di obbedienza rispetto ad urgenze e impulsi profondi, parte anch’essi – fra parole e colori – del «mistero» di continuo costeggiato. Sta di fatto che dal 2004 in poi, a partire dal festeggiatissimo ed artisticamente produttivo traguardo per Luzi dei novant’anni, Francesconi ha subito un richiamo ineludibile che lo ha spinto a fare con Luzi ciò che il pittore versiliese non aveva mai fatto con nessuno dei suoi molti amici letterati conosciuti nel corso di un’esistenza: da Sciascia a Gatto, da Tobino e Bilenchi a Cancogni e Garboli. Con Luzi e solo con Luzi è scattato qualcosa di davvero speciale, da agnizione di sé delegata, quasi sub specie altrui: una fascinazione creativa, un’attrazione investigativa e identificante, e nel contempo un’istanza dialogica profonda, comunicativa e di confronto (perfino di rispecchiamento il più possibile ampio, com’è delle cose e delle persone che amiamo, fino al «doppio»), permessa e garantita dalla necessità stessa dell’atto artistico.

Ritratti a memoria, e proprio così, in assenza del modello da copiare o di sue naturalistiche immagini fotografiche sostitutive, liberamente realistici, anzi più veri del vero: una rutilante, inarrestabile miriade di ritratti capillarmente duttili e attenti, dialogici, affettuosi ed esigenti nel carpire verità fattesi insieme tratto fisionomico e segno espressivo dell’arte; mobili e già spolpati ritratti, resistente e nel contempo trascesa pertinenza del «visibile» biografico; figure per via di segni e impronte di una specie umana tra sé dialogante, con uomini in ascolto l’uno dell’altro, non dimentichi delle proprie origini, pronti ai sacrifici dell’assenza e del silenzio, come chi indirizza lettere rivolgendosi a fantasmi nel chiuso della propria stanza, per comprendersi più a fondo. Si profilano così nuove «riduzioni in parvenze, in illusioni, in astrazioni» – come a suo tempo notò Leonardo Sciascia, scrivendo con acutezza sulla pittura di Francesconi – che sono affilati strumenti, frutto non di ingenuità ma di «consapevolissimo candore» in grado di affrontare e dare lineamenti attendibili al reale tutto.

Gli occhi stessi di Luzi certificavano da soli, d’altra parte – mi è capitato di notarlo e perfino di scriverlo –, del suo essere poeta: gli occhi di Luzi, o meglio i suoi sguardi ingigantiti e resi più intimi dal ricordo, sono stati i primi ad imporsi, probabilmente assieme al silenzio quanto mai gravido di pensieri e sentimenti della persona di Mario Luzi, nell’avantesto figurativo ancillarmente fedele ed instancabilmente mutante di Francesconi. Poi, ogni volta da capo, come se la prima volta fosse quella e non le precedenti, è stata la pittura e solo la pittura a guidare la mano di Francesconi (anche Rilke testimoniava nella sua pratica della poesia la stessa cosa), mettendo in atto le proprie aprogettuali ed esattissime strategie della conoscenza, i suoi modi naturali fra mente e cuore di rompere solitudini, di promuovere comunicazioni, forme di solidarietà e reciproca accoglienza.

È soprattutto a questo denso e decisivo discrimine che Luzi (l’ultimo Luzi, il Luzi più marcatamente «civile») è venuto imponendosi nell’ispirazione di Mario Francesconi come elemento portante di quella «grammatica» compositiva individuata tra «grazia e autorità», «letizia del visibile» e «concretezza formale fin nel segno astrattivo», di cui il poeta stesso aveva già parlato nel 1970 nell’occuparsi dell’opera di Francesconi in mostra a Firenze, da Pananti. E ancora Luzi, nel riconfermare quindici anni dopo la sua adesione e la sua chiave di lettura, scriveva: «Forse non tutte le tele ridono, ma un sorriso, un rapimento è già in questo lavoro che pare ininterrotto e perfino disinteressato riguardo alle conclusioni. Francesconi è uno dei rari artisti per cui cercare è letizia (ma non godimento) e sorpresa incessante, e in questo senso cercare è per lui già trovare».

Due maniere, in particolare, nell’odierno, irresistibile ed inesausto ritrarre a soggetto unico di Francesconi sembrano poi lasciarsi cogliere, in ossequio ad una sorta di condivisa, fraterna iconografia del profondo sperimentalmente cangiante e dinamicamente attiva, di continuo reintrodotta grazie all’ossessione innescata dal modello al «fuoco» di quella «creazione incessante» da Luzi perseguita, inscenata e corroborata. Da una parte semplici ed essenziali tratti grafici, geometrie composte, stilizzate e stilate con leggerezza, perfino tremuli riflessi strappati al pozzo della memoria ed ossidati allungamenti da Ombra della sera; dall’altra, e in contemporanea, lussureggianti trionfi di colori e impasti, con stratigrafie e ripassi – gioiosi fino all’esultanza o dolentemente drammatici – di materia, non senza contaminazioni, sensibili innesti e zone di passaggio tra le due fondamentali modalità espressive: laddove ad esempio il segno si arriccia e rompe l’ordine, deviando comunque dalla elegante linearità e dalle bilanciate simmetrie per farsi macchia e chiaroscuro, per ispessirsi e distendersi in effetti, campiture, amalgami coprenti e spessori. Francesconi tra l’astrattezza di Klee e di Mondrian e il gesto di Pollock, insomma, volendo citare autori cari al pittore, che sono punti di riferimento ineludibili del moderno utili a capire la sua originalità di artista, la felicità espressiva storiograficamente legittimata di una lunga e articolata vicenda.

Francesconi, con la sua pittura, anche tra la vita e la morte. Non sarà un caso che fra tutti i ritratti realizzati da Francesconi – quelli inevitabilmente selezionati per questa mostra e i moltissimi per forza di cose ingiustamente esclusi – si segnali il ritratto di Luzi realizzato il giorno della scomparsa dell’amico poeta (lo si può ammirare riprodotto nell’autoantologia luziana Autoritratto, a cura di Paolo A. Mettel e Stefano Verdino): un Luzi smaterializzato, puro spirito, affettuosamente seguito in quel nuovo e più che mai misterioso viaggio intrapreso; un Luzi ormai spolpata icona dell’invisibile, piena figura del «celeste». Sì, si torna a pensare a Simone Martini e al suo esempio, al tempo e alla cattura dell’attimo eterno che è l’assillo e la sfida dell’arte, all’«universa compresenza» che è «totale evidenza», alla miracolosa e sempre bramata «suprema concordanza».

Ecco così una inverosimile serie di tecniche quanto mai miste e di supporti quanto mai eterogenei e casuali (anche in questa preliminare scelta, sceglie in realtà per Francesconi la sua pittura): dal coperchio pressato di una scatola da scarpe con il suo residuo, «naturale» passe-partout di cartone colorato ad una carta da bollo, alle novecentescamente collaudate pagine di giornale, gloria delle avanguardie e del collage, da Picasso a Rauschenberg. Ecco così, su quei supporti poveri e sublimi, da riciclo dell’esistente, una traboccante miriade di ritratti, una inconclusa e potenzialmente infinita fantasmagoria di omaggi a Mario Luzi: lavori in corso pulsanti, da moto perpetuo del cuore e della mente, così grati e confidenti da pervenire, tramite i disvelamenti operati dalle finzioni dell’arte in un colloquio da Mario a Mario, all’impudicizia della maschera. Per suo conto, già lo accennavamo, Luzi è stato lettore affezionato, singolarmente sintonico e attendibile di Mario Francesconi, in grado di cogliere nelle diacronicamente diluite attestazioni del suo giudizio continuità e aggiornamenti di una ricerca svoltasi nei terrestri territori del «visibile»: una «letizia», quella di Francesconi, fattasi con il procedere degli anni e del suo lavoro d’artista, sempre più minacciata e perciò responsabile, e un persistente, rinascente «mistero» diventato esso stesso più complesso e sbaragliante, più esigente e irresistibile.

Si capiscono bene in questa luce, io credo, le dialogicità stringenti e umanamente preoccupate di un incontro finale instauratosi fra due artisti e la ravvisata, intima e comune necessità del loro compito da svolgere nel mondo: «una sublimata tenacia – per dirla con parole di Luzi su Francesconi datate 2003, alla vigilia dunque dell’inaugurato ciclo ritrattistico – nel trattenere il visibile, l’umano; e nel celebrarlo umilmente nei suoi poveri fastigi, nella sua intensa significazione». Luzi coglieva in particolare nel corrugamento dell’immagine e nel prevalere di scenari ambientativi spoliati e desertici i segnali di una progressiva, montante novità della pittura di Francesconi rispetto alla più lineare, diretta e inintaccata festosità degli inizi. O forse, come ancora Luzi suggeriva, Mario Francesconi non ha cercato altro che di accostarsi maggiormente e con più deliberato coraggio al «mistero», di tentare di penetrarlo.

Così, assieme all’umiltà pronta a cantare la semplice ricchezza dell’esistente e a riscattarla, il «dramma» e l’«enigma» si impongono per Mario Francesconi come per Mario Luzi quali privilegiati dati di riconoscimento di una propria immagine umana calata nel reale e, insieme, quali contrassegni di cogenti quanto «naturali» affinità individue: linee propulsive, pensando in particolare agli innumerevoli e tutti strepitosi ritratti firmati da Francesconi, di una condivisione costantemente in atto vigile ed efficiente, davvero senza fine, oltre i confini di ciò che correntemente chiamiamo la vita. «Il fuoco, lo spirito del mondo», la «creazione incessante» di Luzi e l’infinito ritrarre di Francesconi…

Marco Marchi

Rimani dove sei, ti prego

Rimani dove sei, ti prego,
così come ti vedo.
Non ritirarti da quella tua immagine,
non involarti ai fermi
lineamenti che ti ho dato
io, solo per obbedienza.
Non lasciare deserti i miei giardini
d’azzurro, di turchese,
d’oro, di variopinte lacche
dove ti sei insediata
e offerta alla pittura
e all’adorazione,
non farne una derelitta plaga,
primavera da cui manchi,
mancando così l’anima,
il fuoco, lo spirito del mondo.
Non fare che la mia opera
ricada su se medesima,
diventi vaniloquio, colpa.

Mario Luzi

(da Viaggio celeste e terrestre di Simone Martini)

I VOSTRI COMMENTI

framo
L’artista e il poeta avvertono costante il rischio di una sterile autoreferenzialità e soffrono l’affanno della “colpa”. Colpa di aver diminuito, di aver magari colto, ma non avere restituito, di non aver saputo tradurre -lettera morta … non essere vivo-, di avere, perciò, tradito. Temere la “caduta” in una forma che non trae l’essenza ma la deforma, per il poeta-artista resta un imperativo. E da qui, in un continuo-discontinuo, il suo indefesso operare. L’opera d’arte, per risultare tale, necessita di essere materia vivente e forma pulsante. L’autore (poeta e/o artista), nel corpo a corpo con la forma, è sempre costretto alla resa. Se, eccezionalmente – e questo è il caso -, la resa viene assistita dalla grazia, allora riflette, trasfigura, disvela, anima, feconda, irradia al contempo verità, senso e bellezza. Grandissimo Luzi, grazie.

Antonietta Puri
Un poco stupisce che un fiorentino di nascita ami così svisceratamente Siena e l’arte senese (ma sappiamo che Luzi aveva tutti i suoi buoni motivi per farlo, essendoci vissuto per qualche anno da ragazzo), ripensando ai tempi delle antiche rivalità, in cui gli artisti senesi rifiutavano di dipingere il giglio, simbolo dell’odiata Fiore, nella mano dell’angelo annunciante, compreso Simone Martini, che nella celeberrima Annunciazione degli Uffizi, sentendosi moralmente “obbligato” a rendere l’immagine immacolata di Maria, colloca quattro gigli in un bel vaso d’oro, preferendo dare a Gabriele un ramo di ulivo… Ma noi siamo ben contenti di questo amore, se ha prodotto il capolavoro davvero eccelso che è il “Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini: viaggio iniziatico dell’artista, del poeta e della nostra umanità che, per la sua valenza sapienziale, in qualche modo non dissimile da quello dantesco, rappresenta il faticoso e affascinante ritorno a quell’assoluto dal quale proveniamo, o comunque una specie di incontro “a mezza strada” con quel Dio che, ponendosi al nostro livello, scende a cercarci lungo il cammino. E’ un meraviglioso viaggio tra l’epico e il metafisico, in cui i viandanti, attraverso la celebrazione dei sensi, della mente e dello spirito, prendendo spunto dalla figura di Maria, procedono accettando ciò che non comprendono ma che intuiscono, a lei affidandosi in quanto donna dell’ ascolto e della decifrazione silenziosa, della pazienza e dell’attesa. L’immagine è quella dell’Annunciata degli Uffizi, ritrosa e consenziente, ma è anche quella della vergine in trono della Maestà senese, “regina” incoronata di Siena, “padrona” più che patrona (ne ha le chiavi fin dal 1260), donna, madre di Dio e misericordiosa, affidabile ma, anche se dolcissima, donna dalla autorevole valenza politica che dialoga con i suoi devoti promettendo loro di esaudirne le preghiere, ma condannando con fermezza chi “la mia terra inganni” e quei “potenti” che offendano i “debili”… E quando il canto di Luzi-Martini diventa preghiera, i due mostrano la loro viva carne vulnerabile e tanto il pittore quanto il poeta supplicano la Vergine di non allontanarsi dall’immagine – pur convenzionale ma salvifica – che si sono fatta di lei, di non fare della loro anima un deserto desolato , deprivato del fuoco creativo e dello spirito creatore, affinché la loro opera non si riduca alla mera esaltazione narcisistica dell’io, ma che rimanga il meraviglioso strumento di conoscenza nel quale essa consiste.

Maria Grazia Ferraris
Luzi, Simone Martini, Mario Francesconi e i suoi infiniti ritratti… la mediazione critica di M. Marchi: una presentazione così suggestiva ed esaustiva da portarci in toto nell’itinerario spirituale di Luzi, un Luzi smaterializzato, spirito, Arte, illuminato con leggerezza con semplici ed essenziali tratti grafici, stilizzati e temi anche biografici. Una ricerca tra le arti che si rispondono e si amplificano : «Non lasciare deserti i miei giardini / d’azzurro, di turchese, / d’oro, di variopinte lacche …” : il poeta pare inseguire nella pittura di Duccio o di Simone Martini la «povertà di cuore» insita nell’uomo, la conoscenza che non si presenta mai come acquisizione definitiva, concludente e conclusiva. Il confine tra poesia e preghiera è talvolta così labile da potersi difficilmente riconoscere, come negli Inni sacri di Manzoni, o nella poesia di Dante. E la parola poetica tende via via a farsi limpida, rarefatta, senza rinunciare alla concretezza. È un viaggio tra cielo e terra – come nel Simone Martini – con continui ritorni e continue soste. La tensione è verso la luce che elimina i colori, che trasporta tendenzialmente le cose su di un piano prossimo alla metafisica, alla pronuncia diretta dell’essenza. Ma rimane tuttavia arte, non si fa discorso imprendibile, attua una continua rifondazione di esistenza letteraria: trasparente, fragile e sensibile. La poesia orgogliosamente non vuole essere vaniloquio, la parola poetica non vuole ricadere su sé stessa: “Non fare che la mia opera/ ricada su se medesima, / diventi vaniloquio, colpa.”

Angela per Antonella Bottari
Questo pellegrinaggio, tale è da ritenersi a mio parere, è anche un viaggio alla riscoperta del mondo e percorso di purificazione, iniziatico e sapienziale; ma quest’esperienza estrema conduce immediatamente a una limpida e vibrante percezione della realtà, da cui sgorgano parole nuove, che sembrano oltrepassare e annullare tutte le precedenti pur trattenendole in sé e ritrovandone prodigiosamente il senso. Luzi ci rivela una natura colta in tutta la sua concretezza, quotidiana e terrosa, e in tutte le vibrazioni atmosferiche di un cielo inteso come fattore della terra, come elemento del suo dinamismo. Il Viaggio diventa allora una celebrazione dei sensi che afferrano lo splendore e l’angoscia della realtà, una celebrazione della mente che riesce a cogliere insieme il minuscolo seme che genera la vita e l’insondabile maestà del cosmo, lo scorrere del tempo e la vertigine dell’eternità. Le tavole, gli affreschi, le immagini sacre assurgono a visioni di un cammino spirituale in cui la fisicità e la trascendenza, la dimensione artistica e quella religiosa trovano il loro equilibrio: la prima sperimentata anche come meditazione e riflessione; l’altra vissuta (o scoperta) in primo luogo nella sacralità dell’esistenza, e riverberata poi nell’architettura del mondo: ma nel tormento di un equilibrio così arduo appare vivido il lume della grazia. Seguendo le orme dell’anziano artista, siamo pervasi della sua paziente , salda saggezza; egli che seppe nella sua vita, con i suoi infiniti percorsi d’anima guidarci nella temperie storica trasfigurandola in canto e preghiera.

Damiano Malabaila
Non solo una memorabile poesia, ma una vera e propria ars poetica per interposta persona, questa di Simone-Mario: un modo per ribadire che l’arte, per Luzi, è anche atto etico.

Giacomo Trinci
Il poeta, l’artista: il punto d’incrocio fra vicissitudine e forma, per usare proprio i termini luziani, sono dipinti in questa poesia-immagine e colti nella loro puntuale convergenza: luogo impossibile e tenuto con ferma perizia, che un fraterno artista come Francesconi rende nell’ infinità di variazioni del ritratto di un poeta.L’icona catturata dalla tessitura poetica fluente e delicata, fatta di parole scorrenti una sull’altra, trascoloranti, batte nella scansione del tempo, nella vita; si arrende e resta, nella sua bellezza pietosa. Questa è la poesia che annuncia uno spazio di letizia, una vita nova, un’attesa senza fine di una fisica salvata, di una vita redenta dal pianto delle cose.

Matteo Mazzone
Il dramma, qui, è quello della perdita della poesia come fonte di ispirazione, flusso semicosciente e produttivo che, nel suo rapido scorrere, sembra talvolta impossibile fermare, cristallizzare, raggelare. Ed è questa, per Luzi come per tutti i grandi poeti, la maggiore delle preoccupazioni: la scomparsa di quella vita parallela, di quel mondo poietico, di quella dimensione di ricerca di un sé differente eminentementi creati e costruiti secondo i canoni estetici della parola, del bel verso, della corretta e analgesica miscela tra pensiero e voce, tra il binomio saussuriano “langue” e “parole”. Così, Luzi invoca e rivendica per sé – con un brillante imperativo “rimani” seguito dall’invito “ti prego”, che implica tanto comando quanto sottomissione nel ruolo del poeta – il fondamentale apporto dell’ispirazione poetica, affinché la sua opera non diventi “colpa”, cioè colpevole di essere solo successione asettica di significanti grafici a cui manca il significato, il senso, lo spirito.

Isola Difederigo
Quando Luzi diceva di credere, di nuovo a proposito dell’artista versiliese, “che Francesconi abbia, strada facendo, incontrato il mistero nel suo punto più assillante e si sia inoltrato in quel territorio con la sua leggiadria di movimenti, senza allarmi ma con intensità di sorpresa e di interrogazione” (1996), non sapeva di far parte egli stesso di quel mistero, con l’immagine di sé riflessa all’infinito nella pittura di Francesconi, divenuta suo trasparente, lieve, trepido emblema. Lo sguardo di Luzi e lo sguardo di Francesconi, tutti e due confidando in una rivelazione.

Luzi e Francesconi: la poesia dell’arte e l’arte nella poesia. Una ricerca inesausta che si realizza in forme e modi differenti ma che si sostanzia degli stessi interrogativi, degli stessi tormenti. Nella preghiera di Simone Martini Luzi raggiunge vertiginose altezze, cogliendo il preciso discrimen tra rappresentazione ed arte: e la ricerca, l’ossessione di Francesconi nel ritrarre gli stessi volti d’artista – Luzi, ma anche Samuel Beckett ed altri – ci parla della stessa esigenza di riuscire a cogliere l’anima, quel quid che differenzia l’artista dagli altri individui, e che è molteplice, di volta in volta diverso nel momento divino della crezione poetica, artistica.

Pina Speciale
Meravigliosa scrittura poetica quella di Vittorio Sereni, che ci colpisce con una fantasmagoria di luci e colori di una natura lussureggiante.C’è anche il ricordo di un amore ormai lontano ,che reca tormento all’animo del poeta.

Maria Antonietta Rauti
“Non involarti ai fermi lineamenti che ti ho dato io, solo per obbedienza”. Poesia dell’anima, preghiera in versi al cospetto di un’immagine vista e poi mirata da un pensiero profondo, unico.

Chiara Scidone
I dipinti di Francesconi e le poesie di Luzi: una perfetta unione tra arte e letteratura. Luzi stesso trova che queste due “arti” vadano di pari passo, infatti è sempre stato affascinato e attento al lavoro dei pittori. Trovo veramente interessante la poesia “Rimani dove sei, ti prego” e il modo in cui il poeta chiede alla figura appena rappresentata dal pittore di rimanere immobile, così come la vede.

Marco Capecchi
Luzi, Poeta che forse unico nel ‘900 italiano, riesce a sciogliere la pesantezza di una profonda cultura e il travaglio di una vissuta spiritualità in versi meravigliosi, sorgivi.

Sabina Candela
Fermare l’attimo, quella improvvisa folgorazione capace di cogliere e svelare sostanza e verità!

tristan51
Gli strepitosi ritratti di Francesconi, gli altrettanto strepitosi autoritratti per differimento e rispecchiamento di Luzi, in primis Simone Martini. L’arte che si fa arte sull’arte, la poesia che diventa poesia sulla poesia.

Duccio Mugnai
È un dialogo intimo, profondo di un artista con il suo capolavoro. È uscito da sé stesso, è frutto incomparabile della propria anima transeunte, di cui l’opera pittorica diventa specchio. Tale suggello di bellezza e fede è talmente estatico da desiderare una presenza eterna, non solo artistica, ma anche spirituale.

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