28 febbraio 2022 – Vince, per il mese di febbraio, Aldo Palazzeschi con una poesia tratta dal suo secondo libro di versi, Poemi, ricca di suggestione e non certo allineabile con la sua produzione più nota e caratterizzante (e allora imminente) tutta giocata oppositivamente all’insegna del comico, Palazzeschi e lo sconosciuto, che qui si ripubblica con i vostri numerosi e sempre interessanti commenti. Al secondo gradino del podio Giuseppe Ungaretti, con il post anniversario incentrato sulla bellissima Per sempre dal titolo Auguri a Giuseppe Ungaretti. Bronzo pari merito infine da spartirsi tra Ugo Foscolo con un suo mitico, apprezzatissimo sonetto-capolavoro (La sera di Ugo Foscolo) e Mario Luzi, con la splendida Oscillano le fronde, il cielo invoca tratta da Onore del vero (L’oscura gioia. Mario Luzi). Che poeti, e che testi!
Tra i vostri commenti sollecitati dalla poesia palazzeschiana che oggi si ripubblica, eccone alcuni davvero belli firmati Isola Difederigo, Giacomo Trinci e tristan51. Rispettivamente: “Un poeta voyeur sconosciuto agli altri e a se stesso ma ormai sufficientemente conscio del proprio gioco, pronto a lasciarsi provocare dalle seduzioni ambigue della fantasia e ad esibire senza più freni la vera immagine di sé: quella di un poeta ‘leggero’. La conquista della leggerezza sarà per Palazzeschi la chiave di volta di una scrittura programmaticamente tesa, da solo e insieme ad altri, all’affermazione della ‘libertà’; libertà di proclamare con energia il suo nuovo credo – ‘E lasciatemi divertire!’ – dalle pareti di una casina di cristallo alla mercé degli sguardi altrui, oppure di sviare en travesti il riconoscimento di sé fino a scomparire del tutto alla vista degli altri, ‘la gente’, alla maniera di un Perelà risucchiato dal suo cielo o di un istrionico Doge caparbiamente presente-assente sulla gran scena del mondo. Ogni volta un azzardo letterariamente vincente di questo straordinario equilibrista della fantasia sempre sul filo di una dolorosa quanto esaltante diversità”; “La stagione della poesia di Palazzeschi presenta subito una voce dall’etimo antico e sempre nuovo. Una verginità elegante, elusiva eppure sapientemente coltivata in una sfuggente unicità di timbro, di fraseggio. Come in questo caso, siamo in presenza di un fenomeno straniante, ibrido, da piccola drammaturgia stralunata. Versi di varia cantabilità, fluenti e leggeri; un dialogato leggiadro e mosso che introducono nella letteratura italiana del tempo la singolarità di un parlato ‘da camera’, anomalo e straniero.L’omino di fumo, destruisce con caparbia risolutezza il campionario della tradizione, d’un colpo”; Identificato lo ‘sconosciuto’ di cui la poesia parla: è il Principe Valentino Kore, personaggio che in realtà il giovane Palazzeschi fin dai tempi di ‘: riflessi’ conosceva eccome. Ciò nonostante tutta l’opera di Palazzeschi pare dare ragione ad André Gide (ammiratore dichiarato, peraltro, di ‘Sorelle Materassi’) quando sosteneva che ‘I nostri libri non saranno infine il racconto fedelissimo di noi stessi, ma piuttosto i nostri inconsolati desideri, l’anelito ad altre vite per sempre vietate, a tutti i gesti impossibili’. La scoperta del comico avrebbe presto risarcito Palazzeschi, ridefinendo per lui gli spazi per sofferenze, inibizioni e conflitti. Come accade esemplarmente nei versi della notissima, dolorante e insieme esilarante ‘Fontana malata’: una sorta di autobiografica proiezione dell’io in una cosa ritratta e sonoramente restituita nella sua voce, tra riconosciute disfunzioni dell’esistente e rivincite dell’arte”; “Identificato lo “sconosciuto” di cui la poesia parla: è il Principe Valentino Kore, personaggio che in realtà il giovane Palazzeschi fin dai tempi di “: riflessi” conosceva eccome. Ciò nonostante tutta l’opera di Palazzeschi pare dare ragione ad André Gide (ammiratore dichiarato, peraltro, di “Sorelle Materassi”) quando sosteneva che “I nostri libri non saranno infine il racconto fedelissimo di noi stessi, ma piuttosto i nostri inconsolati desideri, l’anelito ad altre vite per sempre vietate, a tutti i gesti impossibili”. La scoperta del comico avrebbe presto risarcito Palazzeschi, ridefinendo per lui gli spazi per sofferenze, inibizioni e conflitti. Come accade esemplarmente nei versi della notissima, dolorante e insieme esilarante “Fontana malata”: una sorta di autobiografica proiezione dell’io in una cosa ritratta e sonoramente restituita nella sua voce, tra riconosciute disfunzioni dell’esistente e rivincite dell’arte”.
Ma senza dubbio molto originali e azzeccati pure i commenti di Antonella Bottari e Matteo Mazzone: “Sono in trappola. Tento di ragionarci su ma sono sopraffatta dal suono lieve del suo passo, dalle pennellate di nero che abilmente distribuisce tra le ultime luci della sera. Un’ombra. No. Una silhouette. Un uomo. Nero. Come la notte che sta per sopraggiungere. La strada, la linea che demarca lo spazio tra terra e cielo. L’ orizzonte, così vicino, così lontano. E lui invece buio cupo, per il medesimo sentiero. Lo osservo distrattamente con solo un briciolo di curiosità. Sono istanti. Ma durano una vita. O un attimo. Voglio sapere dove va. Dove lo conducono i suoi passi. Un luogo sicuro, una casa, una donna. Nessuno lo sa. A tentoni, estenuato lo sguardo, lo seguo ancora. La consapevolezza di un’anima accanto alla mia mi è indifferente e mi tormenta. Il tempo incalza. Sta per svanire come ogni sera in prossimità dell’orizzonte. Quella linea che io vedo e sono in grado di percepire. È un funambolo che cammina su una linea curva. È un uomo di cui non conosco che una passeggiata serale. Dove va? Cosa vuole? All’ improvviso mi accorgo che non conta saperlo… È tranquillizzante sapere che come ogni sera lo vedrò. Non importa chi sia, quali mete, quali desideri, sogni, aspirazioni abbia. Esiste. Se lo vedo esisto anch’ io. Dio, come sono egoista. Come sono sola. Ho bisogno di un ignoto per ritrovare la strada della mia anima. O per perderla del tutto nel labirinto delle emozioni contrastanti. Sei e sarai il mio incubo? Geniale, diabolico funambolico Palazzeschi”; “La scrittura come importantissimo documento, come raccolta di fragmenta impoetiche, disusate, anticonvenzionali. Essa, dunque, si fa testimonianza di quel lusus-ludus che martellerà come un leitmotiv inceppato tutte le opere romanzesche e poetiche, per presentarci un Palazzeschi sempre pronto allo schizzo, al guizzo, al buffo, al lazzo e parallelamente ad un bilancio esistenziale che, amaramente, cede lentamente il passo alla rassegnazione di una vita che sta per finire. Se Tozzi è il più grande narratore del primo Novecento, se Pasolini è il più grande elegiaco in prosa ed in versi del secondo Novecento, se Zanzotto è il più grande poeta del secondo Novecento, Palazzeschi-Giurlani copre tutto il Novecento come migliore interprete delle sensibilità artistico-stilistiche italiane (almeno le prime), fino ad una personalizzazione propria che fa del gioco, del divertissement un’antifrastica chiave di lettura dell’Italia a lui contemporanea”. ”
Buona rilettura di questo piccolo gioiello di Palazzeschi (recitato oltretutto molto bene, nel video, da Nando Gazzolo)!
Marco Marchi
I VOSTRI COMMENTI
Damiano Malabaila
Grandissimo Aldo! Una fantasia originalissima, amministrata da una intelligenza implacabile…
Antonietta Puri
In questi versi di Palazzeschi, che identifichiamo, non a torto, come il poeta dello sberleffo, per la sua scelta di sorridere sia del clamore dannunziano che dei temi seri dei futuristi, baipassando i ripiegamenti intimistici di atri “eversivi” a lui contemporanei, si percepisce ad una prima lettura il generale senso di spaesamento procurato dall’osservazione quotidiana di un misterioso vagare senza meta, che potrebbe ricondursi, in un momento storico di profonda crisi dei valori e di esaurimento di una lunga tradizione culturale, alla paura della dispersione e dello smarrimento di punti fermi di riferimento cui ancorarsi…; tuttavia, in questo componimento, estrosamente enigmatico e sottilmente ironico, c’è forse qualcosa d’altro che riguarda la vocazione poetica dello stesso autore, una vocazione, se non negata, nemmeno conclamata, ma ancora nascosta sotto la maschera tradizionale e un po’ beffardamente stereotipata del “poeta”, descritto in terza persona: vestito di nero, misterioso, attraversa tutte le sere la città con lo sguardo rivolto all’orizzonte; si ferma, fissa il tramonto, poi se ne torna indietro. Nessuno sa chi sia, né dove alloggi. Sarà con la
celebre “Chi sono?” che Palazzeschi, esibendosi in prima persona, scioglierà l’enigma, senza restrizioni, in forma liberatoria, ribaltando gli sdilinquimenti e gli svigoriti autocompianti dei suoi
contemporanei, a lui non più consonanti, in follia, risata, autoironia, disposizione alla capriola come alla smorfia con una vocazione di clownesca goduria; dalla cancellazione del sé ad una stravagante ostensione dell’io!
Maria Grazia Ferraris
Mi stupisce sempre il giovane Palazzeschi, con la sua vena ampia, dolente, storicamente non allineata, tutta piena di apparenti chiari e di ombre che turbano in modo enigmatico: “guarda laggiù/… nella riga di luce/che lascia il tramonto”. La solitudine lascia inalterato ed inevaso l’interrogativo sulla meta. L’immagine misteriosa ci chiarisce la complessità di questo Autore, apparentemente facile, infantile, giocoso, i cui testi, vengono utilizzati dalla scuola per l’acquisizione di scelte stilistiche facili e significative e per la teatralizzazione deformante, la trasgressività di matrice futurista…. Certo è che qui ci troviamo di fronte al dilemma paradossale della non scelta tra la funzione trasgressiva dell’Arte, liberatrice del gioco che obbedisce al principio del piacere e la regressione dolorante dell’Autore, “ vestito di nero”, nel tramonto.
Antonella Bottari
Sono in trappola. Tento di ragionarci su ma sono sopraffatta dal suono lieve del suo passo, dalle pennellate di nero che abilmente distribuisce tra le ultime luci della sera. Un’ombra. No. Una silhouette. Un uomo. Nero. Come la notte che sta per sopraggiungere. La strada, la linea che demarca lo spazio tra terra e cielo. L’ orizzonte, così vicino, così lontano. E lui invece buio cupo, per il medesimo sentiero. Lo osservo distrattamente con solo un briciolo di curiosità. Sono istanti. Ma durano una vita. O un attimo. Voglio sapere dove va. Dove lo conducono i suoi passi. Un luogo sicuro, una casa, una donna. Nessuno lo sa. A tentoni, estenuato lo sguardo, lo seguo ancora. La consapevolezza di un’anima accanto alla mia mi è indifferente e mi tormenta. Il tempo incalza. Sta per svanire come ogni sera in prossimità dell’orizzonte. Quella linea che io vedo e sono in grado di percepire. È un funambolo che cammina su una linea curva. È un uomo di cui non conosco che una passeggiata serale. Dove va? Cosa vuole? All’ improvviso mi accorgo che non conta saperlo… È tranquillizzante sapere che come ogni sera lo vedrò. Non importa chi sia, quali mete, quali desideri, sogni, aspirazioni abbia. Esiste. Se lo vedo esisto anch’ io. Dio, come sono egoista. Come sono sola. Ho bisogno di un ignoto per ritrovare la strada della mia anima. O per perderla del tutto nel labirinto delle emozioni contrastanti. Sei e sarai il mio incubo? Geniale, diabolico funambolico Palazzeschi.
tristan51
Identificato lo “sconosciuto” di cui la poesia parla: è il Principe Valentino Kore, personaggio che in realtà il giovane Palazzeschi fin dai tempi di “: riflessi” conosceva eccome. Ciò nonostante tutta l’opera di Palazzeschi pare dare ragione ad André Gide (ammiratore dichiarato, peraltro, di “Sorelle Materassi”) quando sosteneva che “I nostri libri non saranno infine il racconto fedelissimo di noi stessi, ma piuttosto i nostri inconsolati desideri, l’anelito ad altre vite per sempre vietate, a tutti i gesti impossibili”. La scoperta del comico avrebbe presto risarcito Palazzeschi, ridefinendo per lui gli spazi per sofferenze, inibizioni e conflitti. Come accade esemplarmente nei versi della notissima, dolorante e insieme esilarante “Fontana malata”: una sorta di autobiografica proiezione dell’io in una cosa ritratta e sonoramente restituita nella sua voce, tra riconosciute disfunzioni dell’esistente e rivincite dell’arte.
Ferruccio Palmucci
A una prima lettura, questa poesia mi ha fatto pensare a qualcosa di inquietante. Per esempio alla morte. Uno sconosciuto “sempre vestito di nero”, che passa dopo il tramonto con lo sguardo fisso “dove finisce la terra”, apparendo tutte le sere d’improvviso e silenzioso come un fantasma, che induce i curiosi a domandarsi l’un l’altro con voce sommessa: “L’hai visto passare stasera? L’ho visto – Lo vedesti ieri sera? Lo vidi, lo vedo ogni sera. – Solo? Solo”, mi è sembrata la metafora enigmatica e muta della morte. Mi aveva richiamato alla memoria addirittura l’immagine angosciante dei corvi neri del film di Hitchcock “Gli uccelli”, metafora di un’inquietudine indefinibile e ignota. Poi ho pensato al Palazzeschi di “Rio Bo”, di “Lasciatemi divertire”, di “Chi sono?” e mi sono detto che un poeta che dice a se stesso: “Sono il saltimbanco dell’anima mia” non poteva essere così diretto con l’idea della morte. Allora ho pensato a un’altra possibile lettura. Lo “sconosciuto” potrebbe essere “l’altro” di tutti noi, la metafora della impossibilità di comunicare e di conoscere gli altri verso i quali nutriamo mille sospetti, e talvolta anche mille timori; che ci appaiono perciò “sempre vestiti di nero”, oscuri, incomprensibili e irriconoscibili. Dunque una lettura un po’ pirandelliana, un modo di ingannare noi stessi perché, diversamente dalle apparenze, lo “sconosciuto” potrebbe essere del tutto diverso da come lo vediamo. E, se questa fosse la giusta interpretazione, ecco allora lo spirito bonariamente pungente di Palazzeschi, il quale, in realtà, si beffa di noi, ci dice quanto siamo ingenui a fidarci delle apparenze, a farci domande un po’ maligne su qualcuno che se ne va per i fatti suoi e a cui piace osservare il tramonto, stare solo e vestirsi di nero.
Chiara Scidone
In questa poesia ci sono tante domande, le domande che Palazzeschi si pone in molte delle sue poesie : “chi sono ? “… Lo sconosciuto, il diverso, forse un po’ come si sentiva lui stesso e come a volte ci sentiamo un po’ tutti. Ma lo sconosciuto sa guardare dove gli altri non guardano, in un posto lontano e indefinito, un posto che solo lui conosce, posto bellissimo come la riga di luce che lascia il tramonto.
Elisabetta Biondi della Sdriscia
Dei versi liberi di lunghezza variabile – alcuni di una sola parola! – una sorta di dialogo che resta in sospeso, tante domande senza risposta: Palazzeschi irrompe nella poesia d’inizio Novecento con una ventata di novità e si contrappone con forza alla poesia della tradizione!
IsolaDifederigo
Un poeta voyeur sconosciuto agli altri e a se stesso ma ormai sufficientemente conscio del proprio gioco, pronto a lasciarsi provocare dalle seduzioni ambigue della fantasia e ad esibire senza più freni la vera immagine di sé: quella di un poeta “leggero”. La conquista della leggerezza sarà per Palazzeschi la chiave di volta di una scrittura programmaticamente tesa, da solo e insieme ad altri, all’affermazione della “libertà”; libertà di proclamare con energia il suo nuovo credo – “E lasciatemi divertire!” – dalle pareti di una casina di cristallo alla mercé degli sguardi altrui, oppure di sviare en travesti il riconoscimento di sé fino a scomparire del tutto alla vista degli altri, “la gente”, alla maniera di un Perelà risucchiato dal suo cielo o di un istrionico Doge caparbiamente presente-assente sulla gran scena del mondo. Ogni volta un azzardo letterariamente vincente di questo straordinario equilibrista della fantasia sempre sul filo di una dolorosa quanto esaltante diversità.
Arianna Capirossi
Della scrittura poetica di Palazzeschi mi ha sempre affascinato il ritmo, solo in apparenza casuale. La sua è sempre una poesia fortemente musicale: questo aspetto risulta più evidente nei componimenti in cui impiega le onomatopee, ma in realtà è presente anche negli altri. Ne “Lo sconosciuto” la successione di versi, perlopiù brevi, costruisce un dialogo laconico, dal ritmo ben marcato, in cui le parole si ripetono e susseguono inseguendo il mistero dello sconosciuto passante, senza però riuscire a svelarlo. Sul finale, il ritmo sembra accelerare, come l’ansia e l’incertezza di chi si pone le domande: ma lo sconosciuto sfugge all’osservatore, lasciando dietro di sé un enigma.
Lorenzo Dini
Crepuscolare sui generis, poi futurista sempre a modo suo, uomo del suo tempo e mai prigioniero di esso come ci ricorda Montale, Palazzeschi rappresenta la voce irriducibile che si rifiuta di prendere disciplinatamente posto nella linea grave e lirica della nostra tradizione poetica italiana. E come nel suo mondo piccino piccino di “Rio Bo” Palazzeschi si nasconde dietro all’astro con la solita smorfia beffarda del clown, così si presenta al lettore come il “poeta sepolto vivo” di “Postille”, così questa volta è l’immagine dello “Sconosciuto” che ci riconferma lo spregiudicato “uomo di fumo” Palazzeschi.
Giulia Bagnoli
Lo sconosciuto è colui che guarda il mondo da un’altra parte, quella del “diverso”; che vive in un mondo “altro”, lontano dalla norma comune. Questo sconosciuto guarda “laggiù dove il cielo incomincia”, perché vede con gli occhi dell’immaginazione. Bellissima!
framo
Specchio di chi interroga e si interroga: il già passato poeta-passante, dallo sguardo fisso “nella riga di luce che lascia il tramonto”, dentro il suo abito nero, sulla soglia dell’umano mistero, si eclissa e si sottrae. Fino a perdersi … e/o trovarsi … oltre l’orlo oscuro di ogni incognita esistenza. Grande Palazzeschi.
Matteo Mazzone
La scrittura come importantissimo documento, come raccolta di fragmenta impoetiche, disusate, anticonvenzionali. Essa, dunque, si fa testimonianza di quel lusus-ludus che martellerà come un leitmotiv inceppato tutte le opere romanzesche e poetiche, per presentarci un Palazzeschi sempre pronto allo schizzo, al guizzo, al buffo, al lazzo e parallelamente ad un bilancio esistenziale che, amaramente, cede lentamente il passo alla rassegnazione di una vita che sta per finire. Se Tozzi è il più grande narratore del primo Novecento, se Pasolini è il più grande elegiaco in prosa ed in versi del secondo Novecento, se Zanzotto è il più grande poeta del secondo Novecento, Palazzeschi-Giurlani copre tutto il Novecento come migliore interprete delle sensibilità artistico-stilistiche italiane (almeno le prime), fino ad una personalizzazione propria che fa del gioco, del divertissement un’antifrastica chiave di lettura dell’Italia a lui contemporanea.
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