1 marzo 2020 – Vincono alla pari, questo mese, due classici del Parnaso italiano novecentesco. Primo ex aequo, festeggiato ieri, Aldo Palazzeschi con una poesia tratta dal suo secondo libro di versi, Poemi, ricca di suggestione e non certo allineabile con la sua produzione più nota e caratterizzante (e allora imminente) tutta giocata oppositivamente all’insegna del comico (Palazzeschi e lo sconosciuto). Il gradino più alto del podio è condiviso con Giuseppe Ungaretti, che festeggiamo oggi, grazie a un post che dell’autore propone un testo canonico e giustamente celebrato dell’Allegria come I fiumi, che qui si ripubblica con i vostri commenti. Argento meritatissimo, in rappresentanza della poesia internazionale, per la grande poetessa americana Sylvia Plath con una splendida lirica tratta da Ariel, Lady Lazarus, di cui lei stessa ci ha lasciato un’altrettanto splendida lettura (Anniversario Sylvia Plath). Anche le letture dei poeti quanto rivelano, quanto aiutano a capire! Bronzo, infine, a Mario Luzi con il suo post anniversario Ricordo di Mario Luzi.
Tra i vostri commenti stimolati dal famoso testo di Ungaretti che oggi si ripubblica, eccone alcuni che abbiamo voluto scegliere: quelli di Elisabetta Biondi della Sdriscia, Antonietta Puri e Giacomo Trinci. Rispettivamente: “Al fluire naturale dell’esistenza, che i fiumi ungarettiani con il loro avvicendarsi rappresentano come un susseguirsi naturale di esperienze diverse, in epoche diverse della vita, a questo fluire armonioso nella sua continuità e orizzontalità, Ungaretti contrappone la rigidità innaturale, la verticalità di un presente che non lo fa sentire in armonia: un presente di guerra mutilante e mutilato, come quell’albero scarnito, simbolo di un’umanità e di una natura oltraggiate, che tuttavia il poeta utilizza come sostegno, come punto di riferimento, per resistere e andare avanti. Una poesia che può aiutarci a capire e decifrare i tempi difficili che viviamo”; “E’ sera. E’ un momento di tregua sul fronte carsico, di cui persino le nubi che passano quiete sulla luna sembrano essere consapevoli. Il poeta e soldato Ungaretti, appoggiato al tronco di un albero “mutilato” dalle granate – e quale aggettivo migliore poteva scegliere nel raccontare di una guerra che fu la madre delle mutilazioni? – rivive il momento in cui, quel mattino stesso, spossato dalla trincea, arso dal sole cocente dell’estate, aveva avuto l’occasione preziosa come una reliquia di immergersi nelle fresche acque dell’Isonzo, uscendone rinnovato, confortato e rinvigorito nel corpo e nell’anima e rammenta come il fluire del fiume si mescolasse col fluire dei suoi pensieri e dei suoi ricordi, tanto che l’acqua di altri fiumi ,aveva preso a prestito il letto dell’ Isonzo, per riportagli alla memoria e alla coscienza i momenti più importanti della sua vita… Ed ecco il flusso del Serchio materializzarsi per rammentargli i suoi antenati; ecco il Nilo, che lo vide un tempo nascere e crescere; ed ecco la Senna a riportargli alla memoria Parigi, dove il poeta ebbe la ventura di conoscersi per quello che era, nel bene e nel male. Ma solo presso l’Isonzo, con l’esperienza devastante della guerra, egli aveva sentito profondamente come fosse una minuscola parte dell’universo, consapevole di dovere ubbidire alle sue leggi. La nostalgia è tanta e, ora che si è fatta notte, il ricordo del passato e il pensiero fosco della battaglia che continuerà a infuriare gli appare come un fiore tenebroso. Una delle più belle poesia di Ungaretti, una lirica di guerra, contro il paesaggio desolato e pietroso del Carso, improntata al ricordo nostalgico, a una profonda riflessione sulla propria vita e da una grande verità umana”; “Ungaretti torna a farsi sentire con la propria scarna musica che scava fisicamente il mondo attraverso una versificazione materica e potente. Si ha come la sensazione di assistere dal vivo, si direbbe, al nascere della poesia, al sorgere dal verso dal rumoroso silenzio della vita. I fiumi della vita mescolano le loro acque nel costituire la storia del poeta: silenzio misterioso della natura e clamore della parola ritrovano la loro unione in questo canto scheggiato”.
Ma decisamente bello anche quello di Matteo Mazzone: “La poesia di Ungaretti si fa voce intima e testimonianza assoluta dell’uomo, caricandosi di quella valenza prettamente sacra che ne impedisce ogni annientamento e ogni cancellazione da parte della storia e della memoria: attraverso i retaggi del simbolismo francese, e tramite una propria personale elaborazione dello scritto, essa si fa non solo limpido bozzetto anti-idilliaco sulle tragicità della guerra, ma immette il germe sempre più nuovo della speranza, della rinascita umana che deve, sostanzialmente, concretizzarsi nella riscoperta del dono della vita. Sull’onda della fonte leopardiana e del finto annegamento, la preziosità della vita è materia oscura alla pseudo-razionalità umana finché questa non è messa in grave repentaglio. Alla vitalistica riscoperta della vita, parallelamente Ungaretti porta avanti una personale ricerca sul dolore, sentito ma silenzioso: un filo di ferro rugginoso che corrobora il cuore e l’animo del poeta: prima la guerra, poi il fratello, ancora il figlio, infine la moglie, lasciandolo, come lui stesso dirà a Pasolini in ‘Comizi d’amore’ un ‘povero vecchio’. Solo, dunque”.
Buon inizio di marzo a tutti!
Marco Marchi
I fiumi di Ungaretti
VEDI I VIDEO Giuseppe Ungaretti legge “I fiumi” , Ungaretti si racconta , Ungaretti intervistato da Pasolini (da “Comizi d’amore”, 1965) , “Inno alla morte” letto da poeta
Firenze, 8 febbraio 2020 – Ricordando che l’8 febbraio 1888 nasceva ad Alessandria d’Egitto Giuseppe Ungaretti.
Ungaretti ha vissuto da protagonista un secolo, di quel secolo nutrendosi e a quel secolo facendo scuola. Vita d’un uomo, appunto: siamo con un titolo più di altri ritenuto valevole, riassuntivo di esiti e prima ancora di una disposizione, al nodo cruciale in cui le ragioni della biografia e quelle della produzione letteraria, la vita e la poesia, si affrontano, cercano i loro punti di contatto e insieme demarcano autonomie, siglano competenze.
In realtà paesaggi e scenari biografici presto in Ungaretti si confondono, si annullano e si trasfigurano. La trincea sarà tra poco, per lui proveniente da Alessandria d’Egitto desideroso di appartenenze e patrie ritrovate, un nuovo deserto. Nasce la poesia di Ungaretti, ed anche la partecipazione del poeta alla Grande Guerra reagisce di comporto, nel senso di un’incidenza molto personalizzata di eventi, da «vita d’un uomo».
Il poeta, l’«uomo di pena», le parole, l’armonia. Il «processo di raccoglimento che poté essere aiutato dalla vicenda umana della guerra» presupposto con evidente cautela da un critico acuto come Gianfranco Contini risulta già impostato, se Parigi – laddove una strumentazione storicamente e ibridamente si forma collegando a ritroso Apollinaire a Mallarmé e Mallarmé a Guérin – si è ridotta a «grigi inenarrabili» e anzi, ancora citando, a «sfumature all’infinito smorzate del colore».
Analogamene la nebbia di Milano, dove ad esempio Ungaretti frequenta la casa di un pittore d’avanguardia come Carrà, si è risolta in un «sentimento d’infinito», ed ogni ambiente esterno ha sedato in partenza rivolte riconducibili ad altri mezzi e ad altre impostazioni, profilando invece, preminenti, i confini dell’io per una cattura in parole della libertà, dell’invocata armonia, dell’innocenza.
La guerra rivela ad Ungaretti – «improvvisamente», come il poeta sottolinea – il linguaggio. E tuttavia il carattere traumatico, drammatico e liberatorio di una condizione registrata ha maturato non da ora risorse e possibilità, ha avuto e avrà bisogno di cultura per ritrovarsi così stabilito ed espressivamente soddisfatto. Perfino il topos romantico-simbolista dell’étranger, aggiornabile e personalizzabile in quello dello «spatriato», si è definito tramite Guérin e Baudelaire, tramite Leopardi: i poeti.
Purificata, ricondotta al suo valore fondante e incorruttibile di monade interna, la parola essenziale cui Ungaretti perviene torna così ad essere il primo atomo di un discorso di rottura senza confronti, ma anche di una conquista ulteriore, imprevista e più ampia: una ricomposizione già agisce all’interno della raccolta, specificandosi in metri sotterranei, sia pure contrastati da una pronuncia rilevata ed isolante di vocaboli, sillabe e suoni.
Si annuncia la ricomposizione del «lungo dissidio» fra tradizione e invenzione, ordine e avventura, che sarà valida fino agli anni estremi. La parola ungarettiana si immerge nel verso, lo ricompone e lo ritrova, tenta un nuovo canto. E sarà l’endecasillabo che suggella Preghiera a gettare un ponte – complice il variantismo, in Ungaretti antistoricamente costitutivo e sistematico – tra L’Allegria e Sentimento del Tempo: «Quando il mio peso mi sarà leggero / il naufragio concedimi Signore / di quel giovane giorno al primo grido».
Marco Marchi
I fiumi
Cotici il 16 agosto 1916
Mi tengo a quest’albero mutilato
abbandonato in questa dolina
che ha il languore
di un circo
prima o dopo lo spettacolo
e guardo
il passaggio quieto
delle nuvole sulla luna
Stamani mi sono disteso
in un’urna d’acqua
e come una reliquia
ho riposato
L’Isonzo scorrendo
mi levigava
come un suo sasso
Ho tirato su
le mie quattro ossa
e me ne sono andato
come un acrobata
sull’acqua
Mi sono accoccolato
vicino ai miei panni
sudici di guerra
e come un beduino
mi sono chinato a ricevere
il sole
Questo è l’Isonzo
e qui meglio
mi sono riconosciuto
una docile fibra
dell’universo
Il mio supplizio
è quando
non mi credo
in armonia
Ma quelle occulte
mani
che m’intridono
mi regalano
la rara
felicità
Ho ripassato
le epoche
della mia vita
Questi sono
i miei fiumi
Questo è il Serchio
al quale hanno attinto
duemil’anni forse
di gente mia campagnola
e mio padre e mia madre
Questo è il Nilo
che mi ha visto
nascere e crescere
e ardere d’inconsapevolezza
nelle distese pianure
Questa è la Senna
e in quel suo torbido
mi sono rimescolato
e mi sono conosciuto
Questi sono i miei fiumi
contati nell’Isonzo
Questa è la mia nostalgia
che in ognuno
mi traspare
ora chè notte
che la mia vita mi pare
una corolla
di tenebre
Giuseppe Ungaretti
(da L’Allegria)
I VOSTRI COMMENTI
Pietro Paolo Tarasco
E’ l’albero della vita, antropomorfo, ferito dalla stessa vita come lo scorrere delle acque dei fiumi che nei loro percorsi incontrano tante insidie. Così ci dice il poeta; è la vita dell’uomo e, poi, c’è lo spettacolo della natura con lo sguardo verso il cielo con la luna che intravede tra le naviganti nuvole o i raggi del sole che assapora disteso fino ad arrivare al buio della notte con lo sguardo verso la terra osservando un fiore ormai privo di petali. Così è la vita!
Antonietta Puri
E’ sera. E’ un momento di tregua sul fronte carsico, di cui persino le nubi che passano quiete sulla luna sembrano essere consapevoli. Il poeta e soldato Ungaretti, appoggiato al tronco di un albero “mutilato” dalle granate – e quale aggettivo migliore poteva scegliere nel raccontare di una guerra che fu la madre delle mutilazioni? – rivive il momento in cui, quel mattino stesso, spossato dalla trincea, arso dal sole cocente dell’estate, aveva avuto l’occasione preziosa come una reliquia di immergersi nelle fresche acque dell’Isonzo, uscendone rinnovato, confortato e rinvigorito nel corpo e nell’anima e rammenta come il fluire del fiume si mescolasse col fluire dei suoi pensieri e dei suoi ricordi, tanto che l’acqua di altri fiumi ,aveva preso a prestito il letto dell’ Isonzo, per riportagli alla memoria e alla coscienza i momenti più importanti della sua vita… Ed ecco il flusso del Serchio materializzarsi per rammentargli i suoi antenati; ecco il Nilo, che lo vide un tempo nascere e crescere; ed ecco la Senna a riportargli alla memoria Parigi, dove il poeta ebbe la ventura di conoscersi per quello che era, nel bene e nel male. Ma solo presso l’Isonzo, con l’esperienza devastante della guerra, egli aveva sentito profondamente come fosse una minuscola parte dell’universo, consapevole di dovere ubbidire alle sue leggi. La nostalgia è tanta e,ora che si è fatta notte, il ricordo del passato e il pensiero fosco della battaglia che continuerà a infuriare gli appare come un fiore tenebroso. Una delle più belle poesia di Ungaretti, una lirica di guerra, contro il paesaggio desolato e pietroso del Carso, improntata al ricordo nostalgico, a una profonda riflessione sulla propria vita e da una grande verità umana.
Maria Grazia Ferraris
Importante, notissima e comunque sempre emozionante lirica del primo Ungaretti , che influenzerà l’esperienza letteraria e la poesia futura. Emergono gli aspetti autobiografici, evocati in un momento di riposo dalla guerra, – un riposo provato dall’orrore in una natura devastata, stravolta- , gli ambienti frequentati nella giovinezza rappresentati simbolicamente dai fiumi : l’Isonzo, e l’esperienza di guerra, il Serchio delle sue radici, il Nilo che gli ha dato i natali, la torbida Senna parigina, fino all’esperienza della trincea : un’immersione regressiva e purificatrice, ( il fiume urna cineraria), la ricerca dell’equilibrio, dell’innocenza, dell’armonia nella parola- il veicolo privilegiato di esperienza di autenticità- carica di tensione e di abilità comunicativa, presa di coscienza di sé in presenza della morte e d’altra parte la –costante- presenza della trasgressione, del turbamento, la nostalgia, via indiretta, come un fiore (di tenebre) , nella notte, di accesso all’universale.
Isola Difederigo
Avere parola, parola originale: questo è stato per Ungaretti il battesimo della poesia celebrato nell’Isonzo, lì dove i fiumi della sua vita confondono per sempre le loro acque. Come scrive in “Ungaretti commenta Ungaretti” (1963): “Finalmente mi avviene in guerra di avere una carta d’identità: i segni che aiuteranno a riconoscermi da quel momento e di cui in quel momento prendo conoscenza come i miei ‘segni’: sono fiumi, sono i fiumi che mi hanno formato. Questa è una poesia che tutti conoscono ormai, è la più celebre delle mie poesie: è la poesia dove so finalmente in un modo preciso che sono un lucchese, e che sono anche un uomo sorto ai limiti del deserto e lungo il Nilo. E so anche che se non ci fosse stata Parigi, non avrei avuto parola; e so anche che se non ci fosse stato l’Isonzo non avrei avuto parola originale”.
Damiano Malabaila
Ungaretti si legge e si rilegge senza mai stancarsi. La sua poesia non conosce ossidazioni, non ha cedimenti, ma continua oltre gli anni il suo prodigio di creazione e il suo essere imperscrutabile scintilla di pensiero.
Questo bellissimo testo esprime il bisogno di ritrovarsi in armonia con la natura nonostante il contesto feroce. Una biografia scandita dal paesaggio fluviale dei luoghi vissuti: fiumi che scorrono come il tempo, accompagnando il poeta stagione dopo stagione, nell’ingenuità della sua infanzia, nelle sue esperienze giovanili, nella sua sofferenza di soldato.
Antonella Bottari
Raccogliamo e accogliamo in noi, attraverso i versi di Ungaretti, il segno profondo della complessità di rapporto tra vita e morte sapientemente enucleati ed esplicati attraverso simboli e metafore. Primo tra i tanti l’albero anrtopomorfo evocante la simbolizzazione della sofferenza del soldato e dell’uomo. Se schiettamente vitali saranno la venerazione del sole, la trasformazione in una fibra dell’universo, in una rara felicità, intimamente ambivalenti e misteriosi risulteranno altri segni; l’ urna d’ acqua, simbolo di valorizzazione e innalzamento, perfino sacrale, dell’esperienza vissuta, e la successiva reliquia; ma come non raccogliere anche la valenza funebre che ricade sul soggetto? Come non ammettere la luttuosa polisemicità del conclusivo “ho riposato”? L’esperienza vitale dell’immersione è anche un’esperienza di morte; così come, dietro il modo idiomatico “le mie quattr’ossa”, è grazie allo sprofondamento mortuario dell’io che diviene possibile l’azione levigatrice felicemente omologante, del fiume. Inabissato nella condizione mineralizzata e ctonia, il soggetto può esperire con felicità anziché con angoscia il moto di scorrimento fluviale, nella vita non smaterializzata e corporea, perturbante espressione dello scorrere temporale. Ne consegue la figura dell’acrobata che sa rinascere funambolicamente privo dei gravami della concretezza: è un io capace di non essere più chiuso nel limite spazio-temporale dell’identità soggettiva: capace perciò, camminando sull’acqua, di congiungere vita e morte in un equilibrio che appare poi ribadito nel rimando metaforico alle “mani” della corrente fluviale, che penetrando nell’io gli regalano la “rara felicità”, contrapposta all’immagine iniziale del fante raccolto in una “dolina” simile a un “circo” e “abbandonato”. Una medesima immagine circolare e protetta chiude il testo, dove la “corolla/ di tenebre” pare fondere la fertile promessa di ciò che sta all’interno di una protezione e la scoperta della perdita e dell’incertezza. In ogni caso il cerchio è in questo componimento tanto il fine da raggiungere, quale stabilità e presentificazione illimitata del lontano nel tempo e nello spazio, quanto il mezzo saggiato per raggiungerlo, quale abbraccio dentro cui l’io tenta di dare un senso stabile alla propria vicenda o trova, con la regressione, un momentaneo equilibrio di pienezza.
Giacomo Trinci
Ungaretti torna a farsi sentire con la propria scarna musica che scava fisicamente il mondo attraverso una versificazione materica e potente. Si ha come la sensazione di assistere dal vivo, si direbbe, al nascere della poesia, al sorgere dal verso dal rumoroso silenzio della vita. I fiumi della vita mescolano le loro acque nel costituire la storia del poeta: silenzio misterioso della natura e clamore della parola ritrovano la loro unione in questo canto scheggiato.
Straordinaria la lettura di Ungaretti, che scava in perfetto accordo con l’essenzialità della sua parola primigenia, affondando nel segreto dell’esistere ed esprimendolo come all’alba del mondo. Indimenticabile.
Maria Antonietta Rauti
Il ricordo di questi fiumi affolla la memoria nostalgica del poeta, ora che la sua esistenza gli sembra fragile come la corolla di un fiore e oscura e misteriosa come le tenebre, circondato come si ritrova dal buio della notte e dalla minaccia della guerra.
Elisabetta Biondi della Sdriscia
Al fluire naturale dell’esistenza, che i fiumi ungarettiani con il loro avvicendarsi rappresentano come un susseguirsi naturale di esperienze diverse, in epoche diverse della vita, a questo fluire armonioso nella sua continuità e orizzontalità, Ungaretti contrappone la rigidità innaturale, la verticalità di un presente che non lo fa sentire in armonia: un presente di guerra mutilante e mutilato, come quell’albero scarnito, simbolo di un’umanità e di una natura oltraggiate, che tuttavia il poeta utilizza come sostegno, come punto di riferimento, per resistere e andare avanti. Una poesia che può aiutarci a capire e decifrare i tempi difficili che viviamo.
Giulia Bagnoli
Il poeta ripercorre con la memoria la sua vita ed è in questo viaggio a ritroso che ne riscopre il senso. La bellezza, celata dietro un gesto apparentemente banale, come fare il bagno in un fiume, rende ancor più aberrante la guerra che mutila gli uomini e offende la natura.
Matteo Mazzone
La poesia di Ungaretti si fa voce intima e testimonianza assoluta dell’uomo, caricandosi di quella valenza prettamente sacra che ne impedisce ogni annientamento e ogni cancellazione da parte della storia e della memoria: attraverso i retaggi del simbolismo francese, e tramite una propria personale elaborazione dello scritto, essa si fa non solo limpido bozzetto anti-idilliaco sulle tragicità della guerra, ma immette il germe sempre più nuovo della speranza, della rinascita umana che deve, sostanzialmente, concretizzarsi nella riscoperta del dono della vita. Sull’onda della fonte leopardiana e del finto annegamento, la preziosità della vita è materia oscura alla pseudo-razionalità umana finché questa non è messa in grave repentaglio. Alla vitalistica riscoperta della vita, parallelamente Ungaretti porta avanti una personale ricerca sul dolore, sentito ma silenzioso: un filo di ferro rugginoso che corrobora il cuore e l’animo del poeta: prima la guerra, poi il fratello, ancora il figlio, infine la moglie, lasciandolo, come lui stesso dirà a Pasolini in “Comizi d’amore” un “povero vecchio”. Solo, dunque.
Chiara Scidone
Sicuramente una poesia che raccoglie tutta l’essenza di Ungaretti. Il poeta, in pausa dalla guerra, si prende un pomeriggio tutto per sé decidendo di bagnarsi nel fiume Isonzo. Così, egli inizia a sentirsi in armonia con la natura che lo circonda e la sua mente comincia a vagare, ricordando tutti i fiumi che hanno fatto parte della sua vita. Una poesia nostalgica, autobiografica, che rivisita la vita del poeta passo per passo. Un bellissimo viaggio tra i ricordi felici a contrasto con la tragedia della sua situazione attuale.
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