Firenze, 29 aprile 2019 – Oggi festeggiamo Eugenio Montale, domani festeggeremo Mark Strand (rispettivamente con il post Montale e gli uomini che non si voltano che qui si ripubblica e con La morte del padre. Mark Strand). Sì, perché la nostra gara mensile si conclude stavolta, al primo posto e secondo quanto accade pure agli altri due gradini del podio, con degli ex aequo: tre ex aequo, e con la poesia straniera, in lingua inglese e in lingua francese, al fianco di quella italiana. Al secondo posto, infatti, compaiono, ancora alla pari, Betocchi e Zanzotto, ambedue su tema pasquale (Pasqua con Carlo Betocchi e La Pasqua di Andrea Zanzotto), al terzo Baudelare e Primo Levi (Elevazione. Charles Baudelaire e Perché sono tornato. Primo Levi). Niente di più articolato, armonico e significativo, in nome della poesia e delle sue attestazioni passate durante il mese di aprile al vaglio della vostra attenzione e del vostro giudizio, si sarebbe potuto pretendere!

Tra i molti bei commenti alla celebre poesia montaliana tratta da “Ossi di seppia” scegliamo indicativamente quelli di Maria Grazia Ferraris, Antonietta Puri e framo. Eccoli, nell’ordine: “Un saggio interpretativo di presentazione straordinario per chiarezza storica e concettuale, nonché critica (Ungaretti-Montale-D’Annunzio), e commenti puntuali e calzanti di risposta fanno da introduzione e terreno d’analisi alla breve e ben conosciuta poesia di Montale: ‘Forse un mattino…’: non abbisognano di altri commenti, credo, se non una rilettura attenta interiore, che ci faccia edotti della grandezza dell’Autore, che contrappone l’uomo comune e la sua rassicurante razionale percezione del mondo e delle cose rispetto al Poeta, interrogante e dubbioso, e alla lucidità della sua coscienza che fronteggia e osa sfidare il negativo (nulla, vuoto, inganno consueto) con terrore di ubriaco. Due quartine a verso lungo con assonanze, rime interne e corrispondenze foniche distese in un’atmosfera di sospensione e di silenzio, necessarie se si vuol intuire la valenza del ‘miracolo’ provvisorio, tutto negativo, che si crea in un’atmosfera quasi allucinata. È una visione che rimanda a implicazioni filosofiche di cui Montale è ben consapevole: ‘forse negli anni in cui composi gli ‘Ossi di seppia’ (tra il ’20 e il ’25) agì in me la filosofia dei contingentisti francesi, del Boutroux soprattutto, che conobbi meglio del Bergson. Il miracolo era per me evidente come le necessità” e che, oltre ai contingentasti francesi, si richiama esplicitamente alla lettura dei romanzieri russi e al critico russo Leon Sestov, a Parigi in quegli anni, certamente a Dostoevskij, ma anche Tolstoi dei ‘Racconti autobiografici’, in cui un passo offre analogie davvero impressionanti: ‘Immaginavo che fuori di me nessuno e nulla esistesse in tutto il mondo, che gli oggetti non fossero oggetti, ma immagini, le quali mi apparivano solo quando vi fissavo l’attenzione, e che appena cessavo di pensarci quelle immagini subito svanissero… rapidamente mi voltavo dalla parte opposta, sperando di sorprendere il nulla, là dove o non ero’ (da G. Lonati, ‘Studi su Montale’, 1980).”; “Mi pare che la poetica di Montale affondi le sue radici nell’esistenzialismo, in quella filosofia dell’angoscia che è quella dell’individuo con i suoi problemi, le sue ansie, il senso drammatico della sua finitezza, e mentre tante certezze entrano in crisi, non ne subentrano altre, per cui egli vive disancorato rispetto ai vecchi valori e senza ancoraggio rispetto a quelli nuovi che non si profilano all’orizzonte. Questa bellissima lirica, questo piccolo oggetto prezioso, mi sembra rappresentare un estratto del pensiero montaliano. In un’atmosfera fredda e lucida, surrealmente al limite dell’asepsi, il poeta ipotizza, quasi profetizzandola, una tremenda rivelazione: guardandosi alle spalle, scoprirà inaspettatamente il vuoto, il nulla assoluto ed è qui che il suo pessimismo compirà un salto di qualità, giacché il dolore – che è motivato da qualcosa che fa male – diventa l’angoscia che nasce dalla contemplazione del nulla e, non distanziandosi da Heidegger che constata come l’uomo, fuggendo atterrito dal nulla che ha alle spalle, non si accorga di anticipare il nulla che ha di fronte, egli rinuncerà a scavalcare quella ‘muraglia’ per non vedere che cosa c’è al di là del mistero, per non intendere che cosa siano la vita e il mondo. Per questo procederà per vie traverse, stordito e destabilizzato come un ubriaco, mentre all’orizzonte, invece di materializzarsi uno spiraglio di luce, si profilerà il consueto, ingannevole ologramma della realtà… Infine il poeta, già per natura schivo di rivelarsi e di confidare agli altri le sue intimità, andrà per la sua strada senza il desiderio di comunicare il suo segreto a coloro che sono usi a non voltarsi indietro, perché indifferenti e disinteressati a cogliere il senso dell’essere che invece pervade lui.”; “Il nulla penetrato con un senso non comune, in un andare che ha l’aria di un risveglio fragile e cristallino, disturbato e disturbante; il vuoto ‘percepito’ come ‘visione di un istante’ – così Montale si esprime altrove, sempre a proposito degli uomini che si voltano – che attraversa e obnubila fino alla perdita di sé e del proprio stare al mondo. L’esperienza (e non il concetto) del vuoto e del nulla mai abbandona il poeta, non resta alle sue spalle; piuttosto diviene parte della sua seconda natura e, consapevolmente, in silenzio, come e più di un dimostrazione irrefutabile, lo “accompagna” per strade battute da chi già ‘sa’ e che ‘il buon senso’ rifugge”.

Buona conclusione di mese con i nostri poeti del blog d’aprile, e buon maggio, ancora all’insegna della poesia e di suoi rappresentanti validissimi!

Marco Marchi

Montale e gli uomini che non si voltano

VEDI I VIDEO “Forse un mattino andando…” letta dal poeta , Videopoesia su lettura di Vittorio Gassman , Intervista a Montale (1966) , “Portami il girasole…”“In limine” letta dal poeta

Firenze, 12 aprile 2019 – Montale muove nel suo scrivere versi dal non sentirsi in sintonia con la vita, con il mondo e con se stesso. La sua poesia del disaccordo, dell’interrogazione, dell’insoddisfazione e dell’incertezza, si situa bene a quel più generale quadro della letteratura italiana del primo Novecento che sul piano della narrativa presenta i grandi nomi di Svevo, Pirandello e Tozzi. Non sarà un caso che Montale sia stato uno dei responsabili della tardiva scoperta del grande Italo Svevo, e questo probabilmente sulla base di una concezione dell’esistenza che, nonostante le diverse età e le diverse esperienze maturate, i due scrittori avevano in comune.

Giacomo Debenedetti ha parlato, a proposito di Svevo, Tozzi e Pirandello, di «romanzo interrogativo»: romanzo nuovo, innovativamente avanzato e proiettato al futuro, in quanto fuori dalle facili forme di presunta esplicabilità sperimentate ed autorizzate dalla narrativa precedente. C’è una crisi in atto del naturalismo: una crisi che vede decadere la possibilità di spiegare il mondo secondo le tradizionali categorie di causa e di effetto e vede invece prepotentemente affacciarsi un interrogativo: la letteratura della crisi del naturalismo è una letteratura modernamente alla ricerca del senso. Mentre gli scrittori di tipo naturalista e verista scrivevano perché sapevano spiegare la realtà (e lo dimostravano concretamente, con il ricorso teoricamente sostenuto ed efficiente alle risulanze scientifiche del positivismo), i narratori nuovi del Novecento scrivono perché non sanno più spiegare il reale.

Ecco che nella pagina di questi scrittori si insinua un’incertezza, un’instabilità di prospettive, una difficoltà di movimento. L’ambito della poesia coeva non è molto distante da queste intervenute difficoltà e da queste nuove esigenze profilatesi. Leggendo le poesie del primo Ungaretti e quelle del primo Montale ci accorgiamo che anche nella produzione poetica di questi autori domina un’inquietudine: la realtà non offre più quelle certezze di cui si faceva portavoce nell’ottica naturalista ottocentesca. E l’insicurezza investe anche l’interiorità dell’uomo. Gli scrittori citati portano alla ribalta i temi alternativi di una ricerca psicologica che culmineranno nella scoperta dell’inconscio e della psicoanalisi di Freud, che dimostrano che l’uomo è qualcosa di molto più complesso e misterioso di quanto si fosse immaginato fino a quell’epoca.

La poesia di Montale fin dagli Ossi di seppia è la poesia della disarmonia, della dicibilità al negativo dell’esistere, a partire dalla definibilità per via negativa della poesia stessa. Montale conduce un discorso molto rigoroso e molto personale in cui coinvolge tutte le risorse storiograficamente testabili appannaggio del linguaggio poetico: tutte le risorse del senso e tutte le risorse del suono che una storia della poesia italiana ha condotto fin lì, già differenziandosi sostanzialmente in questo bilanciamento dalla strada coeva di Giuseppe Ungaretti. Poco importano, a ben vedere, i poco cordiali rapporti biografici intercorsi tra i due poeti, che non si sono mai troppo amati perché concorrenziali nell’immagine del più grande poeta italiano del Novecento. Importa invece notare come effettivamente, leggendo i testi dei due poeti a confronto, le vie si divarichino.

E si divaricano sensibilmente: fin dal modo di esordire sulla scena letteraria. Ungaretti debutta poco prima di Montale e lega il suo nome ad Allegria di naufragi, del 1919, che a sua volta sussume i componimenti del precedente Porto sepolto, editi soltanto in 80 copie nel 1916. Montale sei anni dopo, nel 1925, pubblica la prima edizione di Ossi di seppia. Le strade si presentano subito diverse, nel senso che Ungaretti pensa con fiducia di tipo avanguardistico di poter sillabare la lingua italiana dando espressione al suo nuovo modo di porsi in contatto con la realtà: la possibilità intravista dal poeta di poter fare a meno in qualche modo di una tradizione della poesia italiana giunta fino agli anni della prima guerra mondiale, e la possibilità alternativa, in una situazione dolorosamente eccezionale, tragicamente straordinaria come la guerra, di ricominciare a «pronunciare il mondo». Una fiducia forse resa possibile o almeno incrementata in Ungaretti dal fatto di provenire da Alessandria d’Egitto, di essere uno «spatriato» geograficamente ed autobiograficamente accertabile, in qualche modo sufficientemente distanziato da una vicenda letteraria secolare che invece un poeta come Montale ha sempre sentito più vicina, anche nei suoi studi e nelle sue primissime pratiche linguistiche, nel corso stesso della sua formazione culturale anteriore al debutto poetico.

In altri termini Montale oppone alla scelta rivoluzionaria, radicalmente e potentemente rivoluzionaria di un Ungaretti alla ricerca di un paese e di parole innocenti, un libro come Ossi di seppia: un libro che un critico, Pier Vincenzo Mengaldo, ha persuasivamente definito documento di «conservatorismo linguistico», intendendo dire con questo un libro agli antipodi con la poesia di cui si fa portavoce Ungaretti: una poesia, quella degli Ossi, che mutua il suo linguaggio dalla tradizione immediatamente precedente al suo atto linguistico, che intrattiene con quella tradizione linguistica forti legami. Potremmo dire – semplificando e quasi ignorando le protostoriche poesie di genere palazzeschiano-lacerbiano, avanguardistico-futuristiche e crepuscolari che Ungaretti aveva scritto e che di Ungaretti si conservano – che il primo Ungaretti fa sostanzialmente a meno di una storia della poesia italiana giunta al 1919, epoca di Allegria di naufragi. Quello stesso Ungaretti si dimostra pronto poi, con Sentimento del Tempo, a rivedere questa sua posizione. Eugenio Montale, nello scrivere le poesie che confluiranno nel 1925 in Ossi di seppia, dichiara al contrario la sua derivazione, la sua dipendenza di tipo storico-linguistico dalla poesia che lo ha immediatamente preceduto, confidando, in vista dell’originalità, di una relazione di conoscenza e superamento da intrattenere con i modelli preesistenti.

Sta di fatto che senza la sperimentazione linguistica e formale di D’Annunzio (basti pensare a un testo di assoluto rilievo come Alcyone) gli Ossi di seppia non sarebbero stati quelli che oggi noi leggiamo e valutiamo in tutta la loro importanza storiografica. Il linguaggio che Montale adotta nell’esprimersi nel suo primo libro è fortemente intriso di lezioni soprattutto dannunziane, ma anche pascoliane e carducciane; di un linguaggio cioè che attraverso la possibilità di cogliere una storia della lingua della poesia italiana ad altezza primonovecentesca sussume anche la tradizione più antica. Potremmo dire che Ungaretti è fiducioso in una sorta di solitudine del poeta: il poeta che in qualche modo da solo tenta la voce della poesia, tenta la voce di suoni e di significati della poesia. Montale, al contrario, per esprimere la sua originalità ed affermarla compiutamente, sente il bisogno di riferirsi ad una lingua poetica formalmente concresciuta attraverso i contributi di molti, giunta a lui con il suo forte e talvolta gravoso bagaglio di scelte, di responsabilità, di strumenti espressivi già messi a punto e sperimentati, di possibilità culturali ed espressive sondate.

Dobbiamo dire allora che Ossi di seppia è un libro dannunziano? No: Ossi di seppia è il libro forse più profondamente antidannunziano che esista agli inizi del Novecento, proprio perché Montale utilizza una sorta di continuità linguistica garantita dai suoi precedenti per effettuare il suo attraversamento critico, che lo porta ideologicamente al di là del conservatorismo linguistico di un libro come Ossi di seppia, che non a caso ad Ungaretti sembrava un libro attardato (per lui era il libro di un «floreale» non dotato della modernità dirompente che invece egli rivendicava con sicurezza alla propria poesia). Montale, poeta «floreale», apparentemente dannunziano e di clima, frutto di una tradizione epigonicamente seguita, in realtà mediante l’attraversamento critico di quel tipo di risorse fa una sua proposta estremamente originale, affidandosi ad una continuità di tipo linguistico che si risolve in realtà in una potente discontinuità di tipo ideologico. Un’originalità cui oggi tutti siamo disposti a riconoscere lo straordinario valore.

Marco Marchi

Forse un mattino andando…

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco. 

Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

Eugenio Montale

(da Ossi di seppia, 1925)

I VOSTRI COMMENTI

Antonella Bottari
Il male di vivere e l’epifania negativa sono la traccia profonda, il solco tracciato da Montale in questo suo “Osso” del 1926.
L’universo è privo di un reale significato e non ha una direzione finalizzata ad uno scopo immanente o trascendente. Sintesi di racconto angoscioso è l’uso dei correlativi oggettivi “aria di vetro”, “vuoto”, “terrore di ubriaco”.
Il “miracolo” del secondo verso ha ragione d’essere nella presa di coscienza del mondo inteso solo come la realtà soggettiva sottratta alla forma spazio-tempo e al principio causa-effetto; poichè ciò è innanzi è il nulla e alle spalle, il mondo apparentemente rassicurante, è privo di tracce percorribili.
Il nulla e il vuoto sono la realtà possibile verso le quali tende la poetica della solitudine cosmica e della negatività; il racconto segreto che incombe nell’anima del Nostro ci rivela quanto egli ha dolorosamente intuito della profonda tragedia di un’umanità non ancora pronta a farsi carico di un destino così atrocemente vivo e ineluttabile.

Maria Grazia Ferraris
Un saggio interpretativo di presentazione straordinario per chiarezza storica e concettuale, nonché critica (Ungaretti – Montale- D’Annunzio), e commenti puntuali e calzanti di risposta fanno da introduzione e terreno d’analisi alla breve e ben conosciuta poesia di Montale: Forse un mattino….: non abbisognano di altri commenti, credo, se non una rilettura attenta interiore, che ci faccia edotti della grandezza dell’Autore, che contrappone l’uomo comune e la sua rassicurante razionale percezione del mondo e delle cose rispetto al Poeta, interrogante e dubbioso, e alla lucidità della sua coscienza che fronteggia e osa sfidare il negativo (nulla, vuoto, inganno consueto) con terrore di ubriaco. Due quartine a verso lungo con assonanze, rime interne e corrispondenze foniche distese in un’atmosfera di sospensione e di silenzio, necessarie se si vuol intuire la valenza del “miracolo”provvisorio, tutto negativo, che si crea in un’atmosfera quasi allucinata. È una visione che rimanda a implicazioni filosofiche di cui Montale è ben consapevole: “ forse negli anni in cui composi gli Ossi di seppia (tra il ’20 e il ’25) agì in me la filosofia dei contingentisti francesi, del Boutroux soprattutto, che conobbi meglio del Bergson. Il miracolo era per me evidente come le necessità” e che, oltre ai contingentasti francesi, si richiama esplicitamente alla lettura dei romanzieri russi e al critico russo Leon Sestov, a Parigi in quegli anni, certamente a Dostoevskij, ma anche Tolstoi dei Racconti autobiografici, in cui un passo offre analogie davvero impressionanti: “Immaginavo che fuori di me nessuno e nulla esistesse in tutto il mondo, che gli oggetti non fossero oggetti, ma immagini, le quali mi apparivano solo quando vi fissavo l’attenzione, e che appena cessavo di pensarci quelle immagini subito svanissero ….rapidamente mi voltavo dalla parte opposta, sperando di sorprendere il nulla, là dove o non ero” (da G. Lonati, studi su Montale, 1980).

Giulia Bagnoli
Soltanto al poeta è data la capacità di guardare in alto; di vedere la realtà per quella è, senza cedere all’illusione che la vita sia qualcosa di più che un mero nulla. I versi montaliani non possono che partire dal silenzio lasciato da Leopardi; da quella siepe che nascondeva la vista e che rivelava un infinito-finito.

tristan 51
Giusta la chiamata in causa di Camillo Sbarbaro autorizzato da questo “osso breve” (quello Sbarbaro esibito dedicatario di una lirica degli “Ossi di seppia”); ma giusto anche, nonostante l’inevitabile e non occultata lezione appresa, il distanziamento avvantaggiante assolutamente rilevabile. Altra cosa: la videopoesia su lettura del testo di Vittorio Gassman è davvero un’idea! Complimenti.

Antonietta Puri
Mi pare che la poetica di Montale affondi le sue radici nell’esistenzialismo, in quella filosofia dell’angoscia che è quella dell’individuo con i suoi problemi, le sue ansie, il senso drammatico della sua finitezza, e mentre tante certezze entrano in crisi, non ne subentrano altre, per cui egli vive disancorato rispetto ai vecchi valori e senza ancoraggio rispetto a quelli nuovi che non si profilano all’orizzonte. Questa bellissima lirica, questo piccolo oggetto prezioso, mi sembra rappresentare un estratto del pensiero montaliano.
In un’atmosfera fredda e lucida, surrealmente al limite dell’asepsi, il poeta ipotizza, quasi profetizzandola, una tremenda rivelazione: guardandosi alle spalle, scoprirà inaspettatamente il vuoto, il nulla assoluto ed è qui che il suo pessimismo compirà un salto di qualità, giacché il dolore – che è motivato da qualcosa che fa male – diventa l’angoscia che nasce dalla contemplazione del nulla e, non distanziandosi da Heidegger che constata come l’uomo, fuggendo atterrito dal nulla che ha alle spalle, non si accorga di anticipare il nulla che ha di fronte, egli rinuncerà a scavalcare quella “muraglia” per non vedere che cosa c’è al di là del mistero, per non intendere che cosa siano la vita e il mondo. Per questo procederà per vie traverse, stordito e destabilizzato come un ubriaco, mentre all’orizzonte, invece di materializzarsi uno spiraglio di luce, si profilerà il consueto, ingannevole ologramma della realtà… Infine il poeta, già per natura schivo di rivelarsi e di confidare agli altri le sue intimità, andrà per la sua strada senza il desiderio di comunicare il suo segreto a coloro che sono usi a non voltarsi indietro, perché indifferenti e disinteressati a cogliere il senso dell’essere che invece pervade lui.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Montale attinge alla tradizione per esprimere la disarmonia del vivere e i suoi tormentati dubbi esistenziali: in questi versi, in cui cogliamo l’eco della lettura di Camillo Sbarbaro, la disarmonia è espressa attraverso suoni allitterati – arida, di vetro in rima con segreto e indietro del verso finale, miracolo, terrore di ubriaco – stridenti, nei quali si riversa tutto lo smarrimento del giovane Montale di fronte alle domande senza risposta certa che l’esistere gli pone.

Damiano Malabaila
Che bella sorpresa i video! La videopoesia fra l’altro è molto pasoliniana e poi non c’è niente da fare: Montale è Montale, anche quando legge Montale.

framo
Il nulla penetrato con un senso non comune, in un andare che ha l’aria di un risveglio fragile e cristallino, disturbato e disturbante; il vuoto “percepito” come “visione di un istante” – così Montale si esprime altrove, sempre a proposito degli uomini che si voltano – che attraversa e obnubila fino alla perdita di sé e del proprio stare al mondo. L’esperienza (e non il concetto) del vuoto e del nulla mai abbandona il poeta, non resta alle sue spalle; piuttosto diviene parte della sua seconda natura e, consapevolmente, in silenzio, come e più di un dimostrazione irrefutabile, lo “accompagna” per strade battute da chi già “sa” e che “il buon senso” rifugge.

Daniela Del Monaco
Montale ha descritto l’angoscioso istante rivelatore in cui avviene la scoperta del nulla. Sorpresa infatti dal gesto di voltarsi improvvisamente, la realtà si è rivelata nella sua inesistenza. Il successivo risorgere dell’illusoria realtà consueta non può cancellare l’esperienza miracolosa che il poeta dovrà chiudere in se stesso. Gli altri uomini che non si voltano mai ignorano tale inganno, anzi, vogliono ignorarlo. “Perché le apparenze non durano”? si chiedeva Ungaretti, “Perchè crei, mente, corrompendo”?

Duccio Mugnai
Una poesia famosissima di Montale, peraltro letta durante un’intervista televisiva, in un tono non molto convinto, ma ossessionato dalle grandi, schiaccianti idealità, che Montale stesso riesce ad evocare. Indubbiamente, c’è una ripresa e rielaborazione personalissima della precedente tradizione lirica. Tuttavia, ad un egotismo decadente o superomistico dannunziano, si contrappone una “sveviana” sensazione di inettitudine e di condanna nei confronti della vita. Il poeta, come misero essere umano, si sente investito di una consapevolezza e di una responsabilità esistenziale, che l’amarezza del vivere non gli permette di testimoniare in pienezza. Il suo doloroso ateismo sa, conosce l’inganno della vita, un ciclo osmotico e senza tregua, un contatto continuo con il terrifico senso del nulla. La miglior soluzione, di fronte all’apparire ed all’autoillusioni del mondo, è tacere, andarsene dolorosamente per la propria strada, lungo una muraglia che ha in cima “cocci aguzzi di bottiglia”, senza parlare apertamente dell'”inganno consueto”: “[…] zitto / tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto”.