Antonietta Puri
Se c’è un termine che parrebbe escludere la morte è proprio l’amore, eppure come risuona profonda e veritiera la celebre frase di Oscar Wilde “Ciascuno uccide la cosa che ama”…; già, perché niente come l’amore genera sofferenza e perpetra nefandezze e qualche volta, se non si può uccidere chi si ama, ci si identifica con l’oggetto d’amore e si uccide se stessi. Forse il suicidio di Pavese, come tutti i gesti estremi di autolesionismo, ha radici profonde e lontane, come scrive Italo Calvino in una lettera a Isa Bezzera del 3 settembre 1950, proprio a ridosso del tragico evento: ” …Pavese s’era portato dietro questo suicidio fin da ragazzo, con la sua solitudine, le sue crisi di disperazione, la sua insoddisfazione a scrivere, tutto mascherato da quel suo piglio schivo e risentito. Ma io credevo che fosse, malgrado tutto questo, durissimo e coriaceo, una trincea…Invece non ce l’ha fatta”. E’ evidente che ogni suicidio è un mistero insondabile, la cui risoluzione a nessuno è dato trovare: è con il tempo, con la sedimentazione del dolore e con la rilettura attenta delle opere di Pavese che si prova a penetrare le cause di quel gesto, il significato profondo delle intenzioni di chi lo compì e il percorso irto di insidie che lo portò a credere questo gesto necessario e, soprattutto a cercare di comprendere perché i motivi del voler vivere non gli fossero stati sufficienti al volerlo fare. Certo è che l’essere umano vive un’esistenza tesa come un arco tra la vita e la morte e che ognuno, percorrendo questo arco più o meno breve, va oscillando come un pendolo tra i due estremi, forse chissà…per indicarci lungo la strada il senso dell’esistere o, sentendoci ognuno come corpo di dolore singolo avvertire di far parte di un corpo di dolore più grande che è quello dell’umanità intera e averne una magra consolazione..? Ma è pur vero che è anche attraverso il dolore che si fa linguaggio che fioriscono certi capolavori come la poesia di Pavese, come quella che leggiamo su questa pagina e dà il titolo alla raccolta postuma “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”… E se anche non fu solo l’amore infelice a muovere la mano del poeta contro se stesso, certo è che esso ha una parte da protagonista nel suo dramma umano, dove traspare l’attiguità tra amore e morte, la dedizione pagata con la crudeltà, la promessa amaramente delusa; nella poesia si “piange” la fine di ogni possibile comunicazione con l’amata e la morte di ogni speranza che sarebbe solo una stolida illusione. Quando la donna amata – che sarebbe la vita – si identifica con la morte, tanto vale farla finita… Non dimentichiamo che prima di morire Pavese aveva lasciato sul suo scrittoio questa raccolta di poesie, esprimendo una chiara, evidente volontà agli sbigottiti viventi.
Maria Antonietta Rauti
Costance Dowling: questo il nome dell’attrice americana da cui il Poeta ha subito una delusione amorosa a cui pare legato il testo poetico che sembra rievocare l’amore inteso in maniera petrarchesca e leopardiana. Gli occhi, la parola, il silenzio, la speranza, la vita e poi il nulla, la morte quale compagna di vita sono incontri importanti tra lo scandire dei versi di Pavese… E poi come non soffermarsi sulla magia dello specchio che si ripete come immagine simmetrica,ma non statica, capace di deformare l’azione facendo”riemergere un viso morto” e capace di far parlare un “labbro chiuso”?
Lorenzo Dini
Poesia testamento splendida da leggere e rileggere. “Scenderemo nel gorgo muti”: verso terribile che getta un’ombra di oscuro presagio sul poco successivo gesto, incontrovertibile e risoluto, del suicidio. Muto il gorgo di ascendenza dantesca, come muta, impenetrabile ed originaria la condizione di solitudine di Pavese.
Giacomo Trinci
Il novenario, in questa poesia di Pavese, silenzia il suo bel canto e, prosciugato della sua facile musicalità, inventa il passo lento, meditato di una quasi prosa, di un racconto mormorato a un se stesso leopardianamente affrontato in corpore vili. Le due strofe siglano vita e destino in un abbraccio definitivo e la “poesia della tradizione” si decanta in asciutta, severa e dolente marcia funebre.
Elisabetta Biondi della Sdriscia
I novenari di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, così intensi e drammatici, sono, a mio avviso, i versi d’addio che Pavese ha lasciato in eredità – pesante eredità! – ai suoi contemporanei ma anche a tutti noi: li vergo’, infatti, pochi mesi prima del tragico epilogo di un’esistenza vissuta all’insegna di conflitti e antitesi non risolvibili. Sono versi bellissimi, densi e difficili: in essi Pavese accosta ossimoricamente elementi antitetici che con forza sferzante ci ricordano che la vita è essa stessa un tragico ossimoro. La donna e l’amore, simboli di vita, divengono così elementi di morte, gli occhi dell’amata, che dovrebbero veicolare emozioni e sentimenti diventano simbolo di incomunicabilità e di silenzi. “I tuoi occhi/saranno una vana parola/un grido taciuto, un silenzio”. E vivere è morire, perché la morte “ci accompagna/ dal mattino alla sera, insonne,/sorda, come un vecchio rimorso/ o un vizio assurdo”. E questa verità vale per tutti, “per tutti la morte ha uno sguardo”, tutti “scenderemo nel gorgo muti”.
Giulia Bagnoli
Il 22 marzo del 1950 (stessa data della poesia) nel “Diario” Pavese scrive: “Nulla. Non scrive nulla. Potrebbe essere morta. Devo avvezzarmi a vivere come se questo fosse normale”. La partenza della donna amata avvicina il poeta al pensiero della morte ed è una morte interiore; una morte dell’anima. Il giorno dopo, sempre nel “Diario”, scrive: “L’amore è veramente la grande affermazione. Si vuole essere, si vuole contare, si vuole – se morire si deve – morire con valore, con clamore, restare insomma”. Questo “morire con clamore” preannuncia il reale suicidio del poeta che avverà cinque mesi dopo. Si tratta di una morte scelta e ragionata. Da questo giorno in poi ogni pensiero di Pavese sembra una pianificazione del gesto estremo. Del resto, non è per amore di una donna che ci si uccide, come scrive il 25 marzo, ma perché “un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”. C’è forse qualcosa da dire, che non sia una banalità? Personalmente Pavese mi suscita un profondo silenzio.
Damiano Malabaila
Caro Cesare, scusa se gioco con un titolo tuo, la tentazione è stata troppo forte… Ormai è molto che te ne sei andato, tante cose sono accadute, tante parole sono state scritte. Eppure tu rimani uno dei piu grandi, anche se forse non tutti se ne sono accorti, magari perché non sei di loro di gusto (non ti preoccupare, succede anche ai migliori), magari perché ti amano o ti odiano dalle sponde sicure ma anguste di qualche isoletta teorico-ideologica… e tu invece hai volato alto, fin dove a un certo punto ci si brucia. Ma credimi: anche solo leggerti è giocare col fuoco.
Paolo Parrini
Pavese ci regala morendo la sua opera più dolorosamente vera e profonda, quella in cui la sua “nudità” emerge nel modo più netto.I suoi romanzi scorrono dolenti e insieme intensi, le sua poesie sembrano preparare l’addio, che avverrà in una mattina di un torrido agosto come questo e come mille altri, nella voluta solitudine di un anonimo alberghetto.Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, scenderemo nel gorgo, muti…Pavese centellina la sua morte futura in molte altre sue opere, la prepara e tesse il filo della sua fine.In fondo era scritto finisse così, svanendo , svaporando come neve a un crudele sole.Constance Dowling fu il la alla sua già presa decisione, tanto che mi viene da dire che avrebbe potuto essere per un altro motivo, ma la morte sarebbe venuta.Forse è così che deve finire la vita di chi troppo sente, di chi ha una sensibilità dolorosa e insopportabile.La sua Arte illumina la sua morte, ci restano le sue parole, come monito e come ricordo imperituro.”Perdono tutti…e a tutti chiedo perdono …non fate troppi pettegolezzi…”. Grazie Cesare Pavese, grazie anime tormentata per quel che ci hai lasciato in dono.
Matteo Mazzone
La devastazione è la sensazione principale che dilania l’animo di Pavese: una consapevolezza, sempre più crescente e sempre più dolorosa, di una “vita non vita”. Dapprima, dunque, una meditazione che si fa accecante parola scritta, sudata macchia di sangue, fino alla risolutezza cruda e acerba: il nuovo obbiettivo è il raggiungimento del “gorgo del nulla”, infelicemente cantato anche dall’ultimo d’Annunzio, in cui l’uomo si riduce ad essere “il cane del suo nulla”. Ma per Pavese l’uomo non sminuisce alla maniera dannunziana: trasumana insofferente, s’allieta di ogni dolore vissuto o da vivere, si fa abbracciare dal caldo ed amichevole soffio di una morte che si presenta come una domestica e inscindibile compagnia. Rimane solo desolazione, estrema indifferenza per il proprio io, sicura voglia di morire.
Duccio Mugnai
Marchi ha centrato un nodo fondamentale della poetica di Pavese: “crescere è morire attraverso la scrittura”. A livello cronologico, l’ultimo romanzo intitolato La luna e i falò può essere accostato alle famose poesie scritte per Constance Dowling. Il protagonista del romanzo ha viaggiato, è stato in America, prima di conoscere l’esperienza della Resistenza. Eppure comprende, in un raziocinio assolutamente efficace, ma depressivo, che la fibra più profonda della vita è male, malcelata crudeltà ferina. In pieno deserto americano era rimasto senza benzina, in totale solitudine, chiuso dentro la propria macchina; a notte inoltrata una luna piena era diventata rosso sangue, mentre un branco di lupi ululava intorno. Tutto finisce per crollare; non c’è più maturità, perché la “cara speranza” è “la vita” e “il nulla”, mentre la “morte” “[…] ci accompagna / dal mattino alla sera, insonne, / sorda, come un vecchio rimorso / o un vizio assurdo e “i tuoi occhi” saranno “una vana parola, / un grido taciuto, un silenzio”. Una struggente, dolorosa fino al parossismo, impossibilità di amare giace al fondo di una mortale presa di coscienza; non esiste una vera giustizia, né amicizia, solo brutalità mascherata dalle consuetudini più aride e fasulle della società e della vita stessa.
Feruccio Pamucci
Scrive A. Camus nel Mito di Sisifo: “Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio: giudicare se la vita valga o no la pena di essere vissuta …” Pavese si è posto, a partire dall’età matura, per tutto il resto della sua vita questa inquietante domanda sentendo nascere in lui quello che chiamava “il vizio assurdo”, cioè il suggerimento, nemmeno tanto latente, di rispondere negativamente: no, la vita non vale la pena di essere vissuta. Legato ai ricordi dell’infanzia trascorsa nelle campagne aspre delle Langhe, contrassegnate dalla fatica e dalla povertà, ma ricche di misteriose forze vitali, rivissute nella memoria in forma mitica, Pavese vive la crisi esistenziale dell’approdo alla maturità. La città che si oppone drasticamente all’ascolto delle ignote forze della natura, la partecipazione alla vita collettiva coi suoi problemi di comunicazione, di incomprensione e di esclusione, favoriscono in lui il nascere dell’angoscia esistenziale di cui hanno patito molti artisti e poeti della prima metà del 900. Angoscia dovuta ad un accentuato senso di solitudine e di incomunicabilità che il poeta sente dolorosamente come “mestiere di vivere”, versione più tragica del noto “male di vivere” montaliano. Nella poesia “Lo stendazzu”, da “lavorare stanca”, egli si esprime con queste parole: “L’uomo solo si leva che il mare è ancora buio/ e le stelle vacillano …Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno/ in cui nulla accadrà …la lentezza dell’ora/ è spietata per chi non aspetta più nulla.” Ecco “il vizio assurdo”, il pensiero di farla finita, e così accade, come un evento fatale. la morte però non verrà col suo consueto volto osceno, ma con gli occhi della donna amata. “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.” Occhi sognati, desiderati, mai posseduti, occhi dell’amore deluso, ma anche occhi del “vizio assurdo”, di quel sentirsi estraneo al mondo e agli altri, dell’infelicità che lo accompagna da sempre in una solitudine che gli fa vedere la “vanitas” di tutte le cose. “O cara speranza,/ quel giorno sapremo anche noi/ che sei la vita e sei il nulla.” Vana è la speranza di amare ed essere riamato, vano il desiderio di felicità di chi si sente altrove, di chi è abituato a scavare in se stesso alla ricerca del senso e della pienezza di vita che non trova “Scenderemo nel gorgo muti”, ma la morte avrà sempre i tuoi occhi, una luce, vana quanto si vuole, ma unica voce e luce in un universo nullificato: la luce e la voce della poesia.
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