Firenze, 31 agosto 2022 – Stravince ad agosto Pavese: stravince con il post anniversario La morte e gli occhi. Cesare Pavese che qui si ripubblica assieme ai vostri commenti. Un buon segno, quello proveniente dal nostro blog, che speriamo possa di qui irradiarsi e sovrintendere ad una complessiva, pienamente convinta ripresa d’interesse per tutta l’opera di Pavese, dato che lo scrittore di Santo Stefano Belbo non risulta attualmente letto ed apprezzato come lo era un tempo (specialmente tra i giovani), e dato che Pavese è un senza dubbio un grande scrittore (e un originalissimo poeta, specifichiamo, come apparve ad Alessandro Bonsanti ai tempi del suo debutto in quella veste) nel quadro della letteratura italiana del secolo scorso: un classico novecentesco del tutto meritevole di questo titolo.

Al secondo posto della nostra classifica agostana il poeta del  “lasciatemi divertire” Aldo Palazzeschi con il post Anniversario Palazzeschi, incentrato sulla sua nota, emblematica La fontana malata. Al terzo posto ancora notevole poesia italiana novecentesca con un bell’ ex aequo da spartirsi fra Dino Campana e Primo Levi, rispettivamente con Anniversario Campana e Primo Levi e la bambina di Pompei.

Tra i vostri commenti dedicati a Pavese, numerosi e tutti di qualità, segnaliamo quest’anno quelli di Giacomo Trinci, Antonietta Puri e Matteo Mazzone . Rispettivamente: “Il novenario, in questa poesia di Pavese, silenzia il suo bel canto e, prosciugato della sua facile musicalità, inventa il passo lento, meditato di una quasi prosa, di un racconto mormorato a un se stesso leopardianamente affrontato in corpore vili. Le due strofe siglano vita e destino in un abbraccio definitivo e la “poesia della tradizione” si decanta in asciutta, severa e dolente marcia funebre”; “Se c’è un termine che parrebbe escludere la morte è proprio l’amore, eppure come risuona profonda e veritiera la celebre frase di Oscar Wilde “Ciascuno uccide la cosa che ama”…, perché niente come l’amore genera sofferenza e perpetra nefandezze e può capitare che l’amante non ricambiato che non può uccidere chi ama, identificandosi con l’oggetto d’amore, decida di uccidere se stesso: la poesia di Pavese, forse la sua più famosa, “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” è una tragedia annunciata. E’ evidente che ogni suicidio è un mistero insondabile, la cui risoluzione a nessuno è dato trovare: è con il tempo, con la sedimentazione del dolore e, nel caso del poeta, con la rilettura attenta delle sue opere che si prova a penetrare le cause del gesto drammatico, il significato profondo delle intenzioni di chi volle compierlo, il percorso accidentato che lo portò a crederlo necessario e, soprattutto, a cercare di comprendere perché i motivi del voler vivere non gli fossero più sufficienti per scegliere di farlo. Ma è pur vero che, attraverso il dolore che si fa linguaggio, fioriscono certi capolavori come questa poesia, forse la più famosa di Pavese, che dà il titolo alla raccolta postuma. E se anche non fu solo l’amore infelice a muovere la mano del poeta contro se stesso, certo è che questo sentimento ha una parte da protagonista nel suo dramma umano, dove traspare l’attiguità tra amore e morte, la dedizione pagata con la crudeltà, la promessa amaramente delusa; in questi versi il poeta piange la fine di ogni possibile comunicazione con l’amata e la morte di ogni speranza che sarebbe solo una stolida illusione. Quando la persona amata – che rappresenta la vita- si identifica con la morte, tanto vale farla finita”, “La devastazione è la sensazione principale che dilania l’animo di Pavese: una consapevolezza, sempre più crescente e sempre più dolorosa, di una ‘vita non vita’. Dapprima, dunque, una meditazione che si fa accecante parola scritta, sudata macchia di sangue, fino alla risolutezza cruda e acerba: il nuovo obbiettivo è il raggiungimento del ‘gorgo del nulla’, infelicemente cantato anche dall’ultimo d’Annunzio, in cui l’uomo si riduce ad essere ‘il cane del suo nulla’. Ma per Pavese l’uomo non sminuisce alla maniera dannunziana: trasumana insofferente, s’allieta di ogni dolore vissuto o da vivere, si fa abbracciare dal caldo ed amichevole soffio di una morte che si presenta come una domestica e inscindibile compagnia. Rimane solo desolazione, estrema indifferenza per il proprio io, sicura voglia di morire”.

Ma bello anche i commenti ampi e articolati di Antonella Bottari e Duccio Mugnai (che devo ringraziare per la gentile citazione), come pure quelli molto sintetici e molto personali di Damiano Malabaila (ma chi si cela dietro quello pseudonimo di derivazione leviana?).

Agosto finisce e l’estateancora una volta  è ormai agli sgoccioli, amici. Anche settembre, però, sarà per noi un mese di poesia, con i nostri grandi autori e i loro grandi testi: una poesia al giorno, come sempre, con la rinnovata consapevolezza, in giorni drammayicamente difficili come quelli che il mondo sta vivendo, che la poesia, come garantisce un poeta di accertata attendibilità, “aiuta a vivere, a durare”!

Marco Marchi

La morte e gli occhi. Cesare Pavese

VEDI I VIDEO “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” letta da Vittorio Gassman , Profilo di Cesare Pavese , Da “Il mestiere di vivere” , Pavese secondo Milly, “Gente che non capisce”

Firenze, 27 agosto 2022 – Della maturità, una categoria psicologica, Cesare Pavese aveva fatto un mito, un onnicomprensivo traguardo da raggiungere; a tre parole tratte dal King Lear di Shakespeare aveva affidato quell’obbiettivo, il significato persistente di un esempio: «Ripeness is all», la maturità è tutto.

Fu questo il mito che costò all’uomo Pavese l’esperienza amara del confino e finanche il gesto incontrovertibile e risolutivo del suicidio (a Torino, il 27 agosto 1950). Ma fu questo il mito che alimentò una produzione letteraria di prim’ordine sistematicamente impostata all’insegna della coerenza, della necessità dialettica più ferma ed implacabile: della crescita.

«Ho la certezza – scrisse Pavese quattro anni prima di morire – di una fondamentale e duratura unità di tutto quanto ho scritto o scriverò». E Pavese, fin dalla raccolta di versi che segnò il suo debutto nell’agone letterario (Lavorare stanca, edita nel 1936 a Firenze da «Solaria»), coltivò quella «fondamentale e duratura unità» che consisteva in una ricerca del vero da effettuarsi tramite parole.

I temi essenziali attraverso i quali verrà svolgendosi il suo esercizio sono già, in Lavorare stanca, perfettamente enucleati: non rassicuranti certezze, ma opposizioni, conflitti; città e campagna, agire ed essere, maturità e infanzia. In Pavese conteranno più di quanto si sia stati finora disposti a credere gli episodi precoci di una formazione in cerca di maturità che, con singolare tempismo, propongono una fenomenologia divaricata, conflittuale, già in grado di costituire gli ingredienti-base di quella opposizione costante che verrà progressivamente definendosi come la poetica dell’autore, del narratore e del poeta. Alludo in particolare, semplificando, ai modelli pedagogici forniti sullo sfondo delle Langhe da una simbolica madre ad un orfano (un figlio già obbligato alle separazioni) e al magistero attivo, culturalmente e storicamente coniugato, di un prestigioso professore torinese, Augusto Monti.

Così Santo Stefano Belbo e Torino si emancipano presto in una scissa geografia dell’anima: dell’innocenza e della coscienza, del primordiale e dell’evoluto, della natura e della storia. Anche se il montaliano ingresso nel «mondo degli adulti» nelle liriche di Lavorare stanca si profila per il poeta come una volontarstica conquista dell’uomo, una poesia che vuol narrare apre strade da percorrere allo scrittore. Poesia-racconto, appunto, secondo una celebre dichiarazione dell’autore esordiente, rivolto senza remore all’esempio whitmaniano, Nasce la poesia di Pavese, e nasce, confortata dal riferimento culturale particolarmente ampio e di continuo incrementato, la sua narrativa: da Il carcerePaesi tuoiLa bella estateLa spiaggia, gli esiti maturi del dopopguerra: Il compagnoLa casa in collinaIl diavolo sulle colline, il bellissimo Tra donne soleLa luna e i falò, senza dimenticare le delucidazioni artistiche svolte in chiave mitico-antropologica e psicoanalitica dai Dialoghi con Leucò.

L’esercizio scrittorio di Pavese si lasciò in effetti pilotare solo da se stesso, riducendo a diacronia di soluzioni espressive (talvolta semplicemente giustapposte e così fatte reagire) insoddisfazioni e contraddizioni, bisogno partecipativo e sfiducia nelle collaborazioni al farsi della storia, autenticità dolorosa della solitudine e urgenza di appoggi, oscurità e chiarezza.

L’arte operò i suoi risarcimenti, consentendo risultati individui e resistenti. «Sulle colline il tempo non passa», si legge nei modi lapidari di una sentenza nel romanzo La luna e i falò. Pavese ritrova in questi termini la sua completezza, l’incalco meno imperfetto delle sue ambizioni, della propria immagine. «La passione smodata per la magia naturale, per il selvaggio, per la  verità demonica di piante, acque, rocce e paesi –  si legge del resto nel diario di Pavese alla data del 9 gennaio 1950 –  è un segno di timidezza, di fuga davanti ai doveri e agli impegni del mondo umano». Ma è proprio questo spietato rifuto dell’illusione –  di ogni illusione –  a sostanziare come una realtà già conseguita l’auspicio di cui l’epigrafe alla Luna e i falò si faceva portavoce: «Ripeness is all».

Alla maturità di un’opera che senza infingimenti e tergiversazioni aveva riconosciuto che «crescere vuol dire morire», Pavese era giunto attraverso la scrittura.

Marco Marchi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Cesare Pavese

(da Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)

I VOSTRI COMMENTI

Maria Grazia Ferraris
La poesia fa parte della silloge Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, scritta nel marzo 1950 e dedicata a Constance Dowling.Scrive ricordando l’amico N. Ginzburg: “Cesare P è morto d’estate. La nostra città, d’estate, è deserta e sembra molto grande, chiara e sonora come una piazza; il cielo è limpido ma non luminoso, di un pallore latteo; il fiume scorre piatto come una strada, senza spirare umidità, né frescura. Non c’era nessuno di noi. Scelse, per morire, un giorno qualunque di quel torrido agosto; e scelse la stanza d’un albergo nei pressi della stazione: volendo morire, nella città che gli apparteneva, come un forestiero”. Muore da poeta. Chiude il cerchio. Aveva immaginato la sua morte in una poesia antica, di molti e molti anni prima:
Non sarà necessario lasciare il letto.
Solo l’alba entrerà nella stanza vuota.
Basterà la finestra a vestire ogni cosa
D’un chiarore tranquillo, quasi una luce.
Poserà un’ombra scarna sul volto supino.
I ricordi saranno dei grumi d’ombra
Appiattati così come vecchia brace.
Nel disincanto estremo, rifiutando ogni rancore e autocommiserazione, Pavese raggiunge una virile consapevolezza: “ Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla.” “…Certo in lei non c’è soltanto lei, ma tutta la mia vita passata, la inconsapevole preparazione -l’America, il ritegno ascetico, l’insofferenza delle piccole cose, il mio mestiere. Lei è la poesia, nel più letterale dei sensi. Possibile che non l’abbia sentito?”

Pietro Paolo Tarasco
Le poesie di Cesare Pavese sono di una incommensurabile bellezza e sprigionano emozioni che pochi poeti riescono a donarci. Negli anni, la sua toccante poetica è stata per me sempre foriera di stimoli creativi. Un pensiero profondo in questo triste anniversario.

Antonietta Puri
Se c’è un termine che parrebbe escludere la morte è proprio l’amore, eppure come risuona profonda e veritiera la celebre frase di Oscar Wilde “Ciascuno uccide la cosa che ama”…; già, perché niente come l’amore genera sofferenza e perpetra nefandezze e qualche volta, se non si può uccidere chi si ama, ci si identifica con l’oggetto d’amore e si uccide se stessi. Forse il suicidio di Pavese, come tutti i gesti estremi di autolesionismo, ha radici profonde e lontane, come scrive Italo Calvino in una lettera a Isa Bezzera del 3 settembre 1950, proprio a ridosso del tragico evento: ” …Pavese s’era portato dietro questo suicidio fin da ragazzo, con la sua solitudine, le sue crisi di disperazione, la sua insoddisfazione a scrivere, tutto mascherato da quel suo piglio schivo e risentito. Ma io credevo che fosse, malgrado tutto questo, durissimo e coriaceo, una trincea…Invece non ce l’ha fatta”. E’ evidente che ogni suicidio è un mistero insondabile, la cui risoluzione a nessuno è dato trovare: è con il tempo, con la sedimentazione del dolore e con la rilettura attenta delle opere di Pavese che si prova a penetrare le cause di quel gesto, il significato profondo delle intenzioni di chi lo compì e il percorso irto di insidie che lo portò a credere questo gesto necessario e, soprattutto a cercare di comprendere perché i motivi del voler vivere non gli fossero stati sufficienti al volerlo fare. Certo è che l’essere umano vive un’esistenza tesa come un arco tra la vita e la morte e che ognuno, percorrendo questo arco più o meno breve, va oscillando come un pendolo tra i due estremi, forse chissà…per indicarci lungo la strada il senso dell’esistere o, sentendoci ognuno come corpo di dolore singolo avvertire di far parte di un corpo di dolore più grande che è quello dell’umanità intera e averne una magra consolazione..? Ma è pur vero che è anche attraverso il dolore che si fa linguaggio che fioriscono certi capolavori come la poesia di Pavese, come quella che leggiamo su questa pagina e dà il titolo alla raccolta postuma “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”… E se anche non fu solo l’amore infelice a muovere la mano del poeta contro se stesso, certo è che esso ha una parte da protagonista nel suo dramma umano, dove traspare l’attiguità tra amore e morte, la dedizione pagata con la crudeltà, la promessa amaramente delusa; nella poesia si “piange” la fine di ogni possibile comunicazione con l’amata e la morte di ogni speranza che sarebbe solo una stolida illusione. Quando la donna amata – che sarebbe la vita – si identifica con la morte, tanto vale farla finita… Non dimentichiamo che prima di morire Pavese aveva lasciato sul suo scrittoio questa raccolta di poesie, esprimendo una chiara, evidente volontà agli sbigottiti viventi.

Antonella Bottari
Una breve premessa tratta dal “Breviario del caos” di Albert Caraco. “…Noi tendiamo alla morte, come la freccia al bersaglio, e mai falliamo la mira, la morte è la nostra unica certezza e sempre sappiamo di dover morire, quale che sia il luogo, il momento, o il modo… Ognuno di noi muore solo e muore interamente… La solitudine è una scuola di morte e l’uomo comune non la frequenterà mai, l’integrità non si ottiene altrove, essa è dunque la ricompensa della solitudine…” La tesi della poesia, così contigua al pensiero carachiano, è esposta in modo lucido e critico dal poeta il 13 maggio 1950 nel suo diario quando scrive: “In fondo, in fondo, in fondo, non ho colto al volo questa straordinaria avventura, questa cosa insperata e fascinosa, per ributtarmi al mio vecchio pensiero, alla mia antica tentazione – per avere un pretesto di ripensarci…? Amore e morte – questo è un archètipo ancestrale”. Il gorgo, il simbolo finale, assomiglia più al Tartaro degli antichi Dei greci. E’ possibile, a questo punto, giustapporre alla pavesiana “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” il lacrimoso verso di Anacreonte, “Di dove non si ritorna” sul piano formale e del linguaggio e per la ricchezza di similitudini e di ossimori, per la sua melodia e per il ritmo lento e triste come il suo messaggio mortale:”…Della dolce vita/poco tempo mi resta,/ e spesso piango, ho tanta paura/del Tartaro./Tremenda è la voragine dell’Ade,/ e dolorosa è la discesa/laggiù;/perché, scesi una volta,/in su non si ritorna.” Un altro motivo di bellezza della poesia pavesiana è la sua coerenza logica forte e lineare e la sua coesione molto accurata fatta di rimandi anaforici e cataforici continui.Tutta la poesia è trasfigurata in una visione simbolica e quasi mitica, metafisica, pur rimanendo attaccata alla terra e al mondo ctonio. Morire per amore significa, per Pavese, dare uno scopo alla propria vita. Egli chiarisce questo concetto nel diario, il 23 marzo, scrivendo: “L’amore è veramente la grande affermazione. Si vuole essere, si vuole contare, si vuole – se morire si deve – morire con valore, con clamore, restare insomma. Eppure sempre gli è allacciata la volontà di morire, di sparirci: forse perché esso (l’amore) è tanto prepotentemente vita che, sparendo in lui, la vita sarebbe affermata anche di più?”.

framo
Una stretta ravvicinata su un dato più che reale, la morte, ma anche la vita, svuotata ormai di ogni densità. Diretto l’impatto di questa poesia di Pavese, potente e disarmante il risultato.Tutto terribilmente vero; l’effetto rispecchiamento quasi una necessità. Per tentare di contenere il turbamento, oltre il “labbro chiuso”, la “vana parola”, il “grido taciuto”, e il definitivo silenzio, qui evocati, decidiamo di porci in ascolto di altri suoi versi – ugualmente intensi – in cui il “gorgo” pare lasciare aperte altre possibilità.”Tu sei come una terra/che nessuno ha mai detto/tu non attendi nulla/se non la parola che sgorgherà dal fondo/come un frutto tra i rami./C’è un vento che ti giunge./Cose secche e rimorte/t’ingombrano e vanno nel vento./Membra e parole antiche./Tu tremi nell’estate.” (da “La terra e la morte”). Qui l’opera del poeta sembra offrirsi come appiglio per una tregua al pensiero e alla realtà di un destino ineluttabile che “dentro tanto occlude e divora”; pur temporaneamente, la poesia qui sembra riuscire ad acquietare scompensi e profonde lacerazioni, a lenire le proprie e altrui inquietudini, malattie e impotenze. Qui non pare vana: nella personale e comune “sordida lotta contro rovina e sfacelo”, la parola che sa farsi spiraglio – qui almeno – dispone al sollievo. Immenso Pavese. Grazie.

Giulia Bagnoli
Il 22 marzo del 1950 (stessa data della poesia) nel “Diario” Pavese scrive: “Nulla. Non scrive nulla. Potrebbe essere morta. Devo avvezzarmi a vivere come se questo fosse normale”. La partenza della donna amata avvicina il poeta al pensiero della morte ed è una morte interiore; una morte dell’anima. Il giorno dopo, sempre nel “Diario”, scrive: “L’amore è veramente la grande affermazione. Si vuole essere, si vuole contare, si vuole – se morire si deve – morire con valore, con clamore, restare insomma”. Questo “morire con clamore” preannuncia il reale suicidio del poeta che avverà cinque mesi dopo. Si tratta di una morte scelta e ragionata. Da questo giorno in poi ogni pensiero di Pavese sembra una pianificazione del gesto estremo. Del resto, non è per amore di una donna che ci si uccide, come scrive il 25 marzo, ma perché “un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”. C’è forse qualcosa da dire, che non sia una banalità? Personalmente Pavese mi suscita un profondo silenzio.

Maria Antonietta Rauti
Costance Dowling: questo il nome dell’attrice americana da cui il Poeta ha subito una delusione amorosa a cui pare legato il testo poetico che sembra rievocare l’amore inteso in maniera petrarchesca e leopardiana. Gli occhi, la parola, il silenzio, la speranza, la vita e poi il nulla, la morte quale compagna di vita sono incontri importanti tra lo scandire dei versi di Pavese… E poi come non soffermarsi sulla magia dello specchio che si ripete come immagine simmetrica,ma non statica, capace di deformare l’azione facendo”riemergere un viso morto” e capace di far parlare un “labbro chiuso”?

Daniela Del Monaco
La morte sembra essere l’unica vera compagna del poeta. Quel “vizio assurdo” che suscita in lui un’irresistibile attrazione, nel momento in cui arriverà, avrà certamente gli stessi occhi del suo amore ormai perduto. Quando la fine che subdola e instancabile segue ciascuno di noi silenziosamente, si paleserà impietosa, farà crollare ogni speranza, ogni possibilità, lasciando spazio solo all’assenza, all’incomunicabilità. E tutti noi sprofonderemo nel gorgo dell’oblio.

tristan51
“Crescere vuol dire veder morire”. Un grande oltre ogni moda, oltre ogni temperie del visibile, oltre ogni giudizio: un classico.

tristan51
Ma perché oggi Pavese (tutto Pavese) è meno letto di un tempo? Eppure Pavese ha firmato, sia come poeta che come scrittore, capolavori… Interrogarsi.

Roberta Maestrelli Berti
Emozione…! Forse sarà il tema della morte, che, specialmente a una certa età, “ci accompagna” ed è bello poterla immaginare serena, dolce, silenziosa, con… “i tuoi occhi” e pensare che finalmente “sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla”.

Sabina Candela
La morte come antidoto necessario al superamento definitivo di un malessere che annichilisce e consuma… assordante il silenzio che domina questi versi, triste presagio di chi si consegna con spietata e calcolata freddezza al suicidio.

Marco Capecchi
Quel riferimento alla speranza che è vita e il nulla rappresenta il destino degli uomini. Pavese come Camus.

Paolo Parrini
Pavese ci regala morendo la sua opera più dolorosamente vera e profonda, quella in cui la sua “nudità” emerge nel modo più netto.I suoi romanzi scorrono dolenti e insieme intensi, le sua poesie sembrano preparare l’addio, che avverrà in una mattina di un torrido agosto come questo e come mille altri, nella voluta solitudine di un anonimo alberghetto.Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, scenderemo nel gorgo, muti…Pavese centellina la sua morte futura in molte altre sue opere, la prepara e tesse il filo della sua fine.In fondo era scritto finisse così, svanendo , svaporando come neve a un crudele sole.Constance Dowling fu il la alla sua già presa decisione, tanto che mi viene da dire che avrebbe potuto essere per un altro motivo, ma la morte sarebbe venuta.Forse è così che deve finire la vita di chi troppo sente, di chi ha una sensibilità dolorosa e insopportabile.La sua Arte illumina la sua morte, ci restano le sue parole, come monito e come ricordo imperituro.”Perdono tutti…e a tutti chiedo perdono …non fate troppi pettegolezzi…”.Grazie Cesare Pavese, grazie anime tormentata per quel che ci hai lasciato in dono.

Pina Speciale
Il disincanto di Cesare Pavese nei confronti della vita risale alla sua giovinezza quando, come il giovane Leopardi ,fu tentato dall’idea del suicidio; questo progetto che inseguì durante tutta la sua esistenza, lui lo chiama il “vizio assurdo”; una tentazione che per gli altri poteva sembrare irragionevole perché contraria all’istinto di sopravvivenza, presente in tutti gli esseri viventi.All’inizio del suo romanzo “La luna e i falò” Pavese pone una citazione tratta dalla tragedia “Re Lear” di William Shakespeare :”Ripeness is all”.La morte per Shakespeare deve essere accettata come la conclusione naturale di un percorso come la maturazione di un frutto , per il poeta questo processo è già compiuto.In questo componimento la morte coincide con la visione che Pavese ha della donna: un essere misterioso con cui è impossibile dialogare e stabilire un rapporto.”Sei la vita e la morte , la tua stagione è il silenzio” ,egli dice in un’altra sua poesia.Di fronte ad una vita fallimentare dal punto di vista degli affetti, una vita caratterizzata dal dolore e dalla solitudine, la morte assume l’aspetto di una “cara speranza” perché pone fine alla umana esistenza.

Pina Speciale
Questo componimento “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” ha un incipit quasi profetico; esso fa parte della raccolta omonima e venne composto da Pavese nel marzo del 1950 ,al tempo della delusione da lui patita per l’attrice americana Constance Dowling.La donna è stata sempre per il poeta un universo insondabile :inizialmente considerata simile ad elementi naturali come il mare ,le pietre ,le stagioni ,si identifica via via con la morte.”Sei la terra e la morte ,la tua stagione è il buio e il silenzio.Non vive cosa che più di te sia remota dall’alba.” La donna era per Pavese l’unica speranza per combattere la solitudine esistenziale.Con una donna avrebbe potuto avere un senso la sua vita, anche per realizzare un’aspirazione dal poeta molto sentita : la paternità.Pavese si rende conto che purtroppo gli è impossibile instaurare un legame duraturo con una donna, creatura misteriosa, piena di luci e di ombre, fonte di felicità e di dolore.Un motivo fondamentale della sua infelicità è ,quindi, l’incomunicabilità(ricorrono spesso nelle sue poesie termini come “silenzio” e l’essere “muti”).Questa sua incapacità di dialogo, di penetrare nella psiche della donna rende particolarmente dolorosa la sua esistenza, di cui avverte l’inutilità:”Val la pena essere soli, per essere sempre più soli?” La tentazione di porre fine alla sua esistenza è avvertita da Pavese sin da ragazzo e il “vizio assurdo” accompagnerà tutta la sua esistenza; se lui arriva alla maturità(muore a 42 anni)è perché sente anche lui la brama del vivere e procrastina l’infausto e definitivo progetto del suicidio, nella speranza che possa accadere qualcosa di positivo nella sua vita.Alla fine è certo che la speranza non è che un’illusione e che la morte giungerà per lui con lo sguardo (fisso e impassibile)della donna amata.La morte avrà per tutti gli uomini uno sguardo :ognuno di noi saprà, appressandosi l’ora fatale, quanto sia stato vano abbandonarsi alle illusioni e varcherà la soglia dell’abisso avvolto nel silenzio.”O cara speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla.” Alcuni commentatori propongono al posto della congiunzione “e” la variante “o” che ha valore disgiuntivo. In tal caso Pavese avrebbe detto che con la morte sapremo con certezza se esiste una esistenza oltre la vita oppure no. La congiunzione “e” , invece, ribadisce il nulla.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
I novenari di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, così intensi e drammatici, sono, a mio avviso, i versi d’addio che Pavese ha lasciato in eredità – pesante eredità! – ai suoi contemporanei ma anche a tutti noi: li vergo’, infatti, pochi mesi prima del tragico epilogo di un’esistenza vissuta all’insegna di conflitti e antitesi non risolvibili. Sono versi bellissimi, densi e difficili: in essi Pavese accosta ossimoricamente elementi antitetici che con forza sferzante ci ricordano che la vita è essa stessa un tragico ossimoro. La donna e l’amore, simboli di vita, divengono così elementi di morte, gli occhi dell’amata, che dovrebbero veicolare emozioni e sentimenti diventano simbolo di incomunicabilità e di silenzi. “I tuoi occhi/saranno una vana parola/un grido taciuto, un silenzio”. E vivere è morire, perché la morte “ci accompagna/ dal mattino alla sera, insonne,/sorda, come un vecchio rimorso/ o un vizio assurdo”. E questa verità vale per tutti, “per tutti la morte ha uno sguardo”, tutti “scenderemo nel gorgo muti”.

Chiara Scidone
Ho sempre pensato che solamente il titolo sia una poesia vera e propria. Il poeta suscita così tanto dolore, delusione e tristezza ma anche tantissimo amore, in fondo amore e morte sono così vicini quando si soffre per una relazione finita la speranza se ne va e tutto il resto è niente, è incerto e buio. Semplicemente meravigliosa.

Giacomo Trinci
Il novenario, in questa poesia di Pavese, silenzia il suo bel canto e, prosciugato della sua facile musicalità, inventa il passo lento, meditato di una quasi prosa, di un racconto mormorato a un se stesso leopardianamente affrontato in corpore vili. Le due strofe siglano vita e destino in un abbraccio definitivo e la “poesia della tradizione” si decanta in asciutta, severa e dolente marcia funebre.

Damiano Malabaila
Caro Cesare, scusa se gioco con un titolo tuo, la tentazione è stata troppo forte… Ormai è molto che te ne sei andato, tante cose sono accadute, tante parole sono state scritte. Eppure tu rimani uno dei piu grandi, anche se forse non tutti se ne sono accorti, magari perché non sei di loro di gusto (non ti preoccupare, succede anche ai migliori), magari perché ti amano o ti odiano dalle sponde sicure ma anguste di qualche isoletta teorico-ideologica… e tu invece hai volato alto, fin dove a un certo punto ci si brucia. Ma credimi: anche solo leggerti è giocare col fuoco.

Matteo Mazzone
La devastazione è la sensazione principale che dilania l’animo di Pavese: una consapevolezza, sempre più crescente e sempre più dolorosa, di una “vita non vita”. Dapprima, dunque, una meditazione che si fa accecante parola scritta, sudata macchia di sangue, fino alla risolutezza cruda e acerba: il nuovo obbiettivo è il raggiungimento del “gorgo del nulla”, infelicemente cantato anche dall’ultimo d’Annunzio, in cui l’uomo si riduce ad essere “il cane del suo nulla”. Ma per Pavese l’uomo non sminuisce alla maniera dannunziana: trasumana insofferente, s’allieta di ogni dolore vissuto o da vivere, si fa abbracciare dal caldo ed amichevole soffio di una morte che si presenta come una domestica e inscindibile compagnia. Rimane solo desolazione, estrema indifferenza per il proprio io, sicura voglia di morire.

Lorenzo Dini
Poesia testamento splendida da leggere e rileggere. “Scenderemo nel gorgo muti”: verso terribile che getta un’ombra di oscuro presagio sul poco successivo gesto, incontrovertibile e risoluto, del suicidio. Muto il gorgo di ascendenza dantesca, come muta, impenetrabile ed originaria la condizione di solitudine di Pavese.

Duccio Mugnai
Marchi ha centrato un nodo fondamentale della poetica di Pavese: “crescere è morire attraverso la scrittura”. A livello cronologico, l’ultimo romanzo intitolato La luna e i falò può essere accostato alle famose poesie scritte per Constance Dowling. Il protagonista del romanzo ha viaggiato, è stato in America, prima di conoscere l’esperienza della Resistenza. Eppure comprende, in un raziocinio assolutamente efficace, ma depressivo, che la fibra più profonda della vita è male, malcelata crudeltà ferina. In pieno deserto americano era rimasto senza benzina, in totale solitudine, chiuso dentro la propria macchina; a notte inoltrata una luna piena era diventata rosso sangue, mentre un branco di lupi ululava intorno. Tutto finisce per crollare; non c’è più maturità, perché la “cara speranza” è “la vita” e “il nulla”, mentre la “morte” “[…] ci accompagna / dal mattino alla sera, insonne, / sorda, come un vecchio rimorso / o un vizio assurdo e “i tuoi occhi” saranno “una vana parola, / un grido taciuto, un silenzio”. Una struggente, dolorosa fino al parossismo, impossibilità di amare giace al fondo di una mortale presa di coscienza; non esiste una vera giustizia, né amicizia, solo brutalità mascherata dalle consuetudini più aride e fasulle della società e della vita stessa.

Isola Difederigo
La morte è questo sguardo silenzioso, questo “grido taciuto” di un poeta già oltre, al congedo dell’io poetico nei toni alti di una perseguita e raggiunta “maturità”.