Pietro Paolo Tarasco
Le poesie di Cesare Pavese sono di una incommensurabile bellezza e sprigionano emozioni che pochi poeti riescono a donarci. Negli anni, la sua toccante poetica è stata per me sempre foriera di stimoli creativi. Un pensiero profondo in questo triste anniversario.
tristan51
Ma perché oggi Pavese (tutto Pavese) è meno letto di un tempo? Eppure Pavese ha firmato, sia come poeta che come scrittore, capolavori… Interrogarsi.
Giulia Bagnoli
Il 22 marzo del 1950 (stessa data della poesia) nel “Diario” Pavese scrive: “Nulla. Non scrive nulla. Potrebbe essere morta. Devo avvezzarmi a vivere come se questo fosse normale”. La partenza della donna amata avvicina il poeta al pensiero della morte ed è una morte interiore; una morte dell’anima. Il giorno dopo, sempre nel “Diario”, scrive: “L’amore è veramente la grande affermazione. Si vuole essere, si vuole contare, si vuole – se morire si deve – morire con valore, con clamore, restare insomma”. Questo “morire con clamore” preannuncia il reale suicidio del poeta che avverà cinque mesi dopo. Si tratta di una morte scelta e ragionata. Da questo giorno in poi ogni pensiero di Pavese sembra una pianificazione del gesto estremo. Del resto, non è per amore di una donna che ci si uccide, come scrive il 25 marzo, ma perché “un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”. C’è forse qualcosa da dire, che non sia una banalità? Personalmente Pavese mi suscita un profondo silenzio.
Daniela Del Monaco
La morte sembra essere l’unica vera compagna del poeta. Quel “vizio assurdo” che suscita in lui un’irresistibile attrazione, nel momento in cui arriverà, avrà certamente gli stessi occhi del suo amore ormai perduto. Quando la fine che subdola e instancabile segue ciascuno di noi silenziosamente, si paleserà impietosa, farà crollare ogni speranza, ogni possibilità, lasciando spazio solo all’assenza, all’incomunicabilità. E tutti noi sprofonderemo nel gorgo dell’oblio.
Damiano Malabaila
Sembra di sentirlo, Cesare, parlarci con le parole del suo amatissimo Spoon River: “Ye living ones, / ye are fools indeed / Who do not know the ways of the wind / And the unseen forces / That govern the processes of life” (Serepta Mason; ecco la traduzione della Pivano: “Voi che vivete, / siete davvero degli sciocchi, / voi che non conoscete le vie del vento / né le forze invisibili / che governano i processi della vita”).
Roberta Maestrelli Berti
Emozione…! Forse sarà il tema della morte, che, specialmente a una certa età, ” ci accompagna” ed è bello poterla immaginare serena, dolce, silenziosa, con… “i tuoi occhi” e pensare che finalmente “sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla”.
Maria Grazia Ferraris
La poesia fa parte della silloge “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, scritta nel marzo 1950 e dedicata a Constance Dowling. Scrive ricordando l’amico N. Ginzburg: “Cesare P è morto d’estate. La nostra città, d’estate, è deserta e sembra molto grande, chiara e sonora come una piazza; il cielo è limpido ma non luminoso, di un pallore latteo; il fiume scorre piatto come una strada, senza spirare umidità, né frescura. Non c’era nessuno di noi. Scelse, per morire, un giorno qualunque di quel torrido agosto; e scelse la stanza d’un albergo nei pressi della stazione: volendo morire, nella città che gli apparteneva, come un forestiero”. Muore da poeta. Chiude il cerchio. Aveva immaginato la sua morte in una poesia antica, di molti e molti anni prima:
Non sarà necessario lasciare il letto.
Solo l’alba entrerà nella stanza vuota.
Basterà la finestra a vestire ogni cosa
D’un chiarore tranquillo, quasi una luce.
Poserà un’ombra scarna sul volto supino.
I ricordi saranno dei grumi d’ombra
Appiattati così come vecchia brace.
Matteo Mazzone
La devastazione è la sensazione principale che dilania l’animo di Pavese: una consapevolezza, sempre più crescente e sempre più dolorosa, di una “vita non vita”. Dapprima, dunque, una meditazione che si fa accecante parola scritta, sudata macchia di sangue, fino alla risolutezza cruda e acerba: il nuovo obbiettivo è il raggiungimento del “gorgo del nulla”, infelicemente cantato anche dall’ultimo d’Annunzio, in cui l’uomo si riduce ad essere “il cane del suo nulla”. Ma per Pavese l’uomo non sminuisce alla maniera dannunziana: trasumana insofferente, s’allieta di ogni dolore vissuto o da vivere, si fa abbracciare dal caldo ed amichevole soffio di una morte che si presenta come una domestica e inscindibile compagnia. Rimane solo desolazione, estrema indifferenza per il proprio io, sicura voglia di morire.
Paolo Parrini
Pavese vive la sua morte in anticipo e il germe del suicidio era in qualche modo emerso da alcune conversazioni con amici ma come spesso accade nessuno ci aveva creduto.Verra’la morte scrive in questa sublime poesia e avra’ i tuoi occhi.Gli occhi di Constance Dowling forse che lo aveva abbandonato ma anche una morte piu’ universale quella morte che Pavese aveva sempre avvertito solida e presente. In fondo l’abbandono scatena una latente mancanza fa da miccia a una esplosione che si preparava da tanto tempo. Ognuno morra’ e per ognuno la morte avra’ occhi diversi.Entreremo nel gorgo muti chiude Pavese e cosi’ sara’ per tutti sia per chi e’ allietato dalla fede sia per chi invece vive una morte laica.Pavese muore e vive pero’, dentro i suoi capolavori che ancora oggi e sempre piu’ commuovono il lettore e ogni anima che sente.
Elisabetta Biondi della Sdriscia
I novenari di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, così intensi e drammatici, sono, a mio avviso, i versi d’addio che Pavese ha lasciato in eredità – pesante eredità! – ai suoi contemporanei ma anche a tutti noi: li vergo’, infatti, pochi mesi prima del tragico epilogo di un’esistenza vissuta all’insegna di conflitti e antitesi non risolvibili. Sono versi bellissimi, densi e difficili: in essi Pavese accosta ossimoricamente elementi antitetici che con forza sferzante ci ricordano che la vita è essa stessa un tragico ossimoro. La donna e l’amore, simboli di vita, divengono così elementi di morte, gli occhi dell’amata, che dovrebbero veicolare emozioni e sentimenti diventano simbolo di incomunicabilità e di silenzi. “I tuoi occhi/saranno una vana parola/un grido taciuto, un silenzio”. E vivere è morire, perché la morte “ci accompagna/ dal mattino alla sera, insonne,/sorda, come un vecchio rimorso/ o un vizio assurdo”. E questa verità vale per tutti, “per tutti la morte ha uno sguardo”, tutti “scenderemo nel gorgo muti”.
Antonietta Puri
Se c’è un termine che parrebbe escludere la morte è proprio l’amore, eppure come risuona profonda e veritiera la celebre frase di Oscar Wilde “Ciascuno uccide la cosa che ama”…; già, perché niente come l’amore genera sofferenza e perpetra nefandezze e qualche volta, se non si può uccidere chi si ama, ci si identifica con l’oggetto d’amore e si uccide se stessi. Forse il suicidio di Pavese, come tutti i gesti estremi di autolesionismo, ha radici profonde e lontane, come scrive Italo Calvino in una lettera a Isa Bezzera del 3 settembre 1950, proprio a ridosso del tragico evento: ” …Pavese s’era portato dietro questo suicidio fin da ragazzo, con la sua solitudine, le sue crisi di disperazione, la sua insoddisfazione a scrivere, tutto mascherato da quel suo piglio schivo e risentito. Ma io credevo che fosse, malgrado tutto questo, durissimo e coriaceo, una trincea…Invece non ce l’ha fatta”. E’ evidente che ogni suicidio è un mistero insondabile, la cui risoluzione a nessuno è dato trovare: è con il tempo, con la sedimentazione del dolore e con la rilettura attenta delle opere di Pavese che si prova a penetrare le cause di quel gesto, il significato profondo delle intenzioni di chi lo compì e il percorso irto di insidie che lo portò a credere questo gesto necessario e, soprattutto a cercare di comprendere perché i motivi del voler vivere non gli fossero stati sufficienti al volerlo fare. Certo è che l’essere umano vive un’esistenza tesa come un arco tra la vita e la morte e che ognuno, percorrendo questo arco più o meno breve, va oscillando come un pendolo tra i due estremi, forse chissà…per indicarci lungo la strada il senso dell’esistere o, sentendoci ognuno come corpo di dolore singolo avvertire di far parte di un corpo di dolore più grande che è quello dell’umanità intera e averne una magra consolazione..? Ma è pur vero che è anche attraverso il dolore che si fa linguaggio che fioriscono certi capolavori come la poesia di Pavese, come quella che leggiamo su questa pagina e dà il titolo alla raccolta postuma “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”… E se anche non fu solo l’amore infelice a muovere la mano del poeta contro se stesso, certo è che esso ha una parte da protagonista nel suo dramma umano, dove traspare l’attiguità tra amore e morte, la dedizione pagata con la crudeltà, la promessa amaramente delusa; nella poesia si “piange” la fine di ogni possibile comunicazione con l’amata e la morte di ogni speranza che sarebbe solo una stolida illusione. Quando la donna amata – che sarebbe la vita – si identifica con la morte, tanto vale farla finita… Non dimentichiamo che prima di morire Pavese aveva lasciato sul suo scrittoio questa raccolta di poesie, esprimendo una chiara, evidente volontà agli sbigottiti viventi.
Duccio Mugnai
Marchi ha centrato un nodo fondamentale della poetica di Pavese: “crescere è morire attraverso la scrittura”. A livello cronologico, l’ultimo romanzo intitolato La luna e i falò può essere accostato alle famose poesie scritte per Constance Dowling. Il protagonista del romanzo ha viaggiato, è stato in America, prima di conoscere l’esperienza della Resistenza. Eppure comprende, in un raziocinio assolutamente efficace, ma depressivo, che la fibra più profonda della vita è male, malcelata crudeltà ferina. In pieno deserto americano era rimasto senza benzina, in totale solitudine, chiuso dentro la propria macchina; a notte inoltrata una luna piena era diventata rosso sangue, mentre un branco di lupi ululava intorno. Tutto finisce per crollare; non c’è più maturità, perché la “cara speranza” è “la vita” e “il nulla”, mentre la “morte” “[…] ci accompagna / dal mattino alla sera, insonne, / sorda, come un vecchio rimorso / o un vizio assurdo e “i tuoi occhi” saranno “una vana parola, / un grido taciuto, un silenzio”. Una struggente, dolorosa fino al parossismo, impossibilità di amare giace al fondo di una mortale presa di coscienza; non esiste una vera giustizia, né amicizia, solo brutalità mascherata dalle consuetudini più aride e fasulle della società e della vita stessa.
Aretusa Obliviosa
La parola si fa vana anche in chi si ama, come se l’amore non bastasse a cancellare l’idea della vita come vizio. La vita, appunto, la sua intollerabile assurdità non concedono niente alla speranza, se non il suo disvelamento, ovvero il nulla. Con Pavese il binomio amore-morte perde la sua connotazione ottocentesca e romantica per rinnovarsi in chiave novecentesca ed esistenziale. Una sorta di Leopardi dis-eroico Pavese, per il quale la “cara speranza” si riveste di un nulla eterno i cui deserti non conoscono ginestre.
framo
Come una stretta ravvicinata su un dato reale, la morte ma anche la vita, per lui svuotata ormai di ogni densità. Ogni volta l’impatto di questa celeberrima poesia giunge diretto, disarmante e potente il risultato.Tutto terribilmente vero. L’ effetto rispecchimento quasi una necessità. Per contenere il turbamento, oltre al “labbro chiuso”, alla “vana parola”, “al grido taciuto” e al definitivo “silenzio” qui evocati, ci poniamo in ascolto di altri versi di Pavese, altrettanto intensi, in cui il “gorgo” pare lasciare spazio anche ad altre possibilità.
“Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorghera’ dal fondo
come un frutto tra i rami.
C’è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t’ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell’estate.”
(da “La terra e la morte”)
In opere come questa il poeta sembra poter dare ancora un po’ di pace, a se’ e agli altri. Immenso Pavese.
Marco Capecchi
Leggerla e rileggerla: una poesia che ha accompagnato ogni fase della mia vita trovandola sempre più bella e ricca e profonda.
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