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Firenze, 10 ottobre 2024 – Ricordando che il 10 ottobre 1921 nasceva a Pieve di Soligo (Treviso) il grande Andrea Zanzotto.

Notava Montale, in un suo memorabile intervento dedicato a La Beltà, che in Andrea Zanzotto si esprime “il tragico dissidio tra quella che i cristiani dicono anima e ciò che gli scienziati dicono psiche”. Indicando questo nodo, Eugenio Montale coglieva nel segno circa attualità e futuri sviluppi dell’opera del poeta, illuminandone tecniche e strategie messe in atto nel rispondere per via scrittoria a tale rilevazione, a tale insopito, rinascente bisogno di accertamento: “Zanzotto non descrive, circoscrive, avvolge, prende, poi lascia”.

È così, in effetti, che Zanzotto si muove tra i materiali fonico-immaginativi che affollano il suo formidabile e interminabile laboratorio di poeta novecentesco fatto di sostanze semantiche e presemantiche, combinazioni grammaticali e pregrammaticali, soluzioni linguistiche e prelinguistiche, costantemente alla ricerca della pietra filosofale che gli permetta di riprodurre in versi la fabula straniante individualissima che chi scrive sta vivendo. Il poeta perviene in tal modo – cito ancora da Montale – ad una “poesia inventariale che suggestiona potentemente e agisce come una droga sull’intelletto giudicante del lettore”, bilanciandosi tra individuazione di se stesso e relazionalità con il reale mediante una sorta di “mobilità insieme fisica e metafisica”.

Una “mobilità insieme fisica e metafisica”. Sta di fatto che, nel leggere l’alta, storicamente autorizzata e paradigmatica poesia di Zanzotto viene un momento in cui l’effetto dello stupefacente poetico-espressivo raggiunto e comunicato, disposto anche in chi lo recepisce a tutte le possibili arditezze acrobatiche per via di interferenze e sprofondi semantici, nessi analogici e simultaneità, cessa, si annulla, e la mente, sgombra di lusinghe ammiccanti e fascinazioni, riacquista di colpo piene facoltà coscienziali: facoltà accresciute, potenziate dall’esperienza della quale è stato al centro, sperimentando di persona, all’apice della fruizione artistica consentita, l’ontologica compresenza dei due livelli.

In altri termini, quando le parole di Zanzotto “lasciano”, è inevitabile il subentro o meglio il valorizzato ritrovamento del giudizio, dell’istanza razionalistica alla chiarificazione critica di ciò che la visione trasfigurante, imponendosi magicamente con i suoi tratti e i suoi specifici attributi fascinatori all’attenzione, accantonava o pretendeva per un momento almeno di potere omettere. Un analogo, quintessenziale e sincretistico percorso tra emozione e riflessione, Es e coscienza, che ci riconduce in campo storiografico-artistico a quell’ineludibile bivio novecentesco tra l’ordine e la pulsione e nell’universo espressivo del poeta ai suoi magnifici cortociruiti della scrittura in cui tout se tient.

Marco Marchi

Notificazione di presenza sui Colli Euganei

Se la fede, la calma d’uno sguardo
come un nimbo, se spazi di serene
ore domando, mentre qui m’attardo
sul crinale che i passi miei sostiene,
se deprecando vado le catene
e il sortilegio annoso e il filtro e il dardo
onde per entro le più occulte vene
in opposti tormenti agghiaccio et ardo,
i vostri intimi fuochi e l’acque folli
di fervori e di geli avviso, o colli
in sì gran parte specchi a me conformi.
Ah, domata qual voi l’agra natura,
pari alla vostra il ciel mi dia ventura
e in armonie pur io possa compormi.

Andrea Zanzotto

(da IX Ecloghe, Mondadori 1962)

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