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Firenze, 7 febbraio 2024 – Ricordando che ieri ricorreva l’anniversario della morte di David Maria Turoldo (Milano, 6 febbraio 1992).
Preme fortemente nella produzione poetica di David Maria Turoldo quella sorta di sostanziale incommensurabilità di Dio rispetto all’uomo cui con affascinante pertinenza Karl Rahner si riferisce nei suoi scritti. E’ proprio questa enigmaticità, anzi, a produrre in Turoldo un canto di ispirazione religiosa inquieto e diviso, aspro e non di rado dilaniato al suo interno, foriero di scandali e belligeranze non meno che di umana e creaturale compassione. La «cella solitaria» del poeta friulano presto in effetti si apre, il viaggio in una stanza presto si avvia a prevedere – oltre le seduzioni di un’«oscura luce» e la «sicura chiarità» di un «piccolo nido» – un villaggio universale della crudeltà e dell’ingiustizia, del consumismo e della guerra, dell’alienazione e della ferocia umana.
È un amore di tempra reboriana che infiamma altro amore, che, per accettazione e per protesta, amando e lasciandosi contagiare dall’amore, trova là il suo inveramento, che si completa facendosi presenza tra le cose in balìa del precario, instabili e già trascoloranti: «Mia natura è di essere / presente: amare / la realtà che sento: toccare, / divenire queste morenti cose / salvarle nel mio gesto / di pietà. Mia tristissima / gioia di questi possedimenti / sempre dispersi: di queste / inesistenze: amore di case / che debbo lasciare; di questa / mia perita città».
Così dicono i versi di Mia natura, nel giocare rispetto all’«Ego sum qui sum» dell’Esodo (altrove liricamente affrontato per via di citazione) sul valore verbale/copulativo di un «essere» ambiguamente a fine verso, incentivando – oltre l’espressività dell’enjambement –l’ossimoro e l’antitesi, ricorrendo al deittico ungarettiano della concretezza, della desolazione carsica e dell’essenzialità bellica, chiamato a dare risalto all’hic et nunc, a ritrovare tra i confini della contraddizione i luoghi operativi della presenza, esistenziali, religiosi e poetici. Una «perita città» che, soprattutto nella lirica turoldiana di mezzo (quella degli anni Settanta, specialmente, o come espressamente periodizza un sottotitolo dopo il 1968) si specificherà in accezione politica del canto, in annessione di dati della cronaca in rapporto a un’esigenza modificatoria e, prima, a un disegno storico superiore, di continuo interrogato, posto senza tergiversazioni e infingimenti di fronte al negativo, messo, assieme all’uomo, alla prova.
I due grandi movimenti della poesia di Turoldo, le sue tensioni fondamentali e calamitanti, si profilano: la riaffermazione della concordia e la lode delle meraviglie che nel mondo in cui Cristo si è calato si rinnovano, e insieme la contestazione delle intollerabili permanenze dell’antico, della disarmonia non sanata, degli intralci alla reintegrazione del vitale, che è come dire la problematica adesione al nuovo intervenuto, a una riconciliazione consentita e promessa ma che non annulla ipso facto, mimeticamente rispetto alle necessità espiatorie di un umanissimo Christus patiens inconsapevole, anteriore alla vittoria e al trionfo (si veda ad esempio, a suggello della raccolta del 1987 Il grande Male, la suite narrativa La notte del Signore), il dolore e la morte.
«In verità io ti dico che domani…», secondo alcune delle ultime parole dalla Croce. David si fa Giobbe, la poesia di Turoldo si conforma – nel ricercare ciò che Salvatore Natoli ha definito nell’Esperienza del dolore l’«abbandonarsi a una potenza consolatrice» – alle possibilità offerte dalla salmistica, all’ascolto stilistico di una gamma di generi, inclusiva – nel parlare a Dio e di Dio – della realtà peritura e sofferente di un mondo costretto ancora a scontare l’inesplicabile, il tragicamente difficile da capire ed accogliere: la distanza da quel Dio. La poesia per suo conto conforta e interroga, ritrova certezze e denuncia, inneggia forte del suo costitutivo «non sapere» di atto incoercibile e ambiguo e intona a nome di tutto il mondo il proprio compianto.
È così che l’incontro con Leopardi, con un Leopardi sub specie di «anima» ritrovata, «condanna assoluta, voce senza scampo, così disperata e lucida», intenta oltre le apparenze a indagare il mistero, appare inevitabile (A Leopardi, anima mia, in Il sesto Angelo). È così che altrettanto ineludibile e impellente, sotto il segno di un’analoga incandescenza, si rivela l’incontro con la poesia italiana contemporanea, a partire da quella del secondo dopoguerra con il realismo e il dibattito sul realismo, con le letture (talvolta di clima) di poeti americani e sudamericani, con gli ampliamenti tematici e linguistici che hanno investito la lirica di tradizione ermetica, fino, in Turoldo, ai testimoniati dubbi bloccanti ed autodistruttivi innescati dalla presunta disappartenenza – nonostante l’anomalia di posizione rivendicata – a una vicenda artistica comune e in questi termini, secondo questi diagrammi e secondo queste verifiche storiografiche giunte all’odierno, dotata di plausibilità.
Turoldo poeta scrive allora testi come Requiem per il Vietnam, Salmodia per il Cile, Ballata per i campesinos della Bolivia: testi di carattere politico-sociale e ideologico-militante confluiti per la maggior parte nel Sesto Angelo e soprattutto in Fine dell’uomo? (libri ambedue del 1976), e drasticamente penalizzati – secondo gli opportuni rilievi in chiave variantistica forniti da Giorgio Luzzi – dalla rizzoliana silloge del 1990 O sensi miei…, la quale al contrario, antologizzando, ripropone integralmente i primi quattro libri, moderatamente sfoltisce e calibra Il grande Male e ristampa senza ripensamenti aggiornanti il recente Nel segno del Tau.
Marco Marchi
Ma tu sempre
Tu sempre m’intendi
pur se mormoro o grido:
tu l’Ineffabile
perfino Tenebra luminosa!…
Così varcherò l’ultima soglia
l’anima danzando…
Salmo 8
Come splende, Signore Dio nostro
il tuo nome su tutta la terra.
Lasciami anche dalla tomba un pertugio,
che io possa ancora vedere
il sole che sorge
una nuvola d’oro,
Espero che riluce la sera
in un limpido cielo.
E mai abbia fine questa Coscienza
cge i cieli immensi comprende
e più riflesso di te
che lo orni di divino splendore;
senza, non c’è voce che ti canti.
Preghiera
Svegliati, mia arpa,
che voglio destare l’aurora:
cantare i silenzi dell’alba
chiamare le genti sulle porte,
e salutare il giorno:
e dare speranza agli umili
e dire insieme la preghiera
del pane che basti per oggi:
allora anche i poveri ne avranno d’avanzo.
Amen.
David Maria Turoldo
(da Ultime poesie 1991-1992)
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