VEDI I VIDEO “Idea” , Andrea Zanzotto legge “Al mondo” ,  Riflessioni , “(Perché) (Cresca)”

Firenze, 10 ottobre 2018 – Ricordando che oggi ricorre l’anniversario della nascita del grande Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo, Treviso, 10 ottobre 1921).

Lo abbiamo sostenuto altre volte e in altri contesti, sulla scia di considerazioni firmate Eugenio Montale: nel leggere l’alta poesia di Andrea Zanzotto viene un momento in cui l’effetto dello stupefacente poetico-espressivo raggiunto e comunicato – disposto anche in chi lo recepisce a tutte le possibili arditezze acrobatiche per via di interferenze e sprofondi semantici, nessi analogici e simultaneità –  cessa, si annulla, e la mente, sgombra di lusinghe ammiccanti e fascinazioni, riacquista di colpo piene facoltà coscienziali. Si rivelano, queste ultime, facoltà accresciute, potenziate dall’esperienza della quale è stato al centro, sperimentando di persona, all’apice della fruizione artistica consentita, l’ontologica compresenza dei due livelli.

In altri termini, quando le parole di Zanzotto ci lasciano, è inevitabile il subentro o meglio il valorizzato ritrovamento del giudizio, dell’istanza razionalistica alla chiarificazione critica di ciò che la visione trasfigurante, imponendosi magicamente con i suoi tratti e i suoi specifici attributi all’attenzione, accantonava o pretendeva per un momento almeno di potere omettere. Un analogo, quintessenziale e sincretistico percorso tra emozione e riflessione, Es e coscienza, che ci riconduce in campo storiografico-artistico a quel bivio novecentesco tra Mondrian e l’informale, l’ordine e la pulsione, e in un selezionato, monografico ambito letterario zanzottiano, all’ultima strofa di “Filò”.

“La poesia di Zanzotto – come è stato con acutezza scritto – è un attentato scientifico al mistero del divino nella Natura” (Stefano Del Bianco). Qui, nella parte conclusiva di quell’intenso, memorabile poemetto, Zanzotto ha appena finito di formulare il suo saluto al dialetto e ha costatato che il “paesaggio” oggetto di perlustrazione non è affatto cambiato, permanendo tragico, disastrato al pari di quelli in precedenza esplorati del Friuli, del Vajont e dell’esondante e distruttivo neocapitalismo contemporaneo.

E tuttavia il poeta riconferma per giusta – in Filò” come nella poesia del giorno tratta da “Vocativo” che oggi proproniamo – l’estensione a un ambito di una parola (e anche di una parola viscerale-affettiva per eccellenza come quella dialettale) di un responsabile operato ecologico aperto al futuro: all’umana speranza, secondo prospettive di palingenesi rintracciabili nel complesso rapporto di “assunzione” tra io e Natura cui un libro venuto molti anni dopo come l’hölderliniano “Sovrimpressioni “– fra “stellare” e “corporeo”, “alieno” e “reale”, muovendosi consapevolmente nel “LONTANO QUI” – approderà.

Marco Marchi

Idea

«E tutte le cose a me intorno
colgo precorse nell’esistere.
Tìepido verde il nitore dei giornì
occulta, molle li irrora,
d’ìnsetti e uccelli s’agita e scintilla.
Tutto è pieno e sconvolto,
tutto, oscuro, trionfa e si prostra.
Anche per te, mio linguaggio, favilla
e traversia, per sconsolato sonno
per errori e deliqui
per pigri zie profonde inaccessibili,
che ti formasti corrotto e assoluto.
Anche tu mio brevissimo nitore
di cellule mentali, tronco alone
di gridi e di pensieri
imprevisti ed eterni.
Ed esanime il palpito dei frutti
e delle selve e della seta e dei
rivelati capelli di Diana,
del suo felice dolcissimo sesso,
e, agra e vivida, l’arsura
che all’unghie s’intromette ed alle biade
pronte a ferire,
e il mai tacente il mai convinto cuore,
tutto è ricco e perduto
morto e insorgente
tuttavia nella luce
nella mia vana chiarità d’idea».

Andrea Zanzotto

(da “Vocativo)

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